ERNST BERNHARD: INTRODUZIONE ALLA VITA E ALL’OPERA.
Un maestro scomodo della psicologia del profondo.
di M. Ganz
Capitolo primo
Chi è Ernst Bernhard? Cenni biografici
Ernst Bernhard nacque a Berlino il 18 settembre 1896 da genitori ebrei. Il padre ed il nonno, entrambi medici, provenivano da una famiglia originaria dell’Ungheria, la madre invece da famiglia austriaca. Allevato molto rigidamente dal padre, si sentì pienamente accettato dalla madre e dalle due nonne, alle quali doveva una religiosità profonda, semplice e schietta, che rimase tratto singolare e caratteristico della sua personalità, e radice di una fede e spiritualità che non l’avrebbero mai abbandonato.
Degli anni antecedenti l’arrivo in Italia non si hanno notizie puntuali, ma si proverà a ricostruirli ugualmente attraverso le uniche fonti disponibili.
Durante la Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipò come volontario nella Sanità, lesse al fronte per la prima volta le opere del filosofo Martin Buber, rimanendone profondamente impressionato. Fu allora che decise di approfondire la figura di Gesù, nella quale Buber riconosceva il rabbi ebraico. Terminata la Guerra, nel periodo in cui si dedicava agli studi di medicina, Bernhard fece visita a Buber; l’incontro fu determinante per la sua vita di ebreo, anche perché prese coscienza del suo temperamento hassidico, e hassid era stato anche il bisnonno paterno, che aveva seguito dall’Ungheria a Berlino il proprio rabbi. L’Ungheria del resto fu uno dei Paesi in cui maggiormente prese piede il movimento hassidico. Bernhard pensava che nell’hassidismo come mai altrove, negli ultimi secoli, si rivelasse e manifestasse la forza dell’anima ebraica e leggeva volentieri i racconti degli hassidim raccolti da Buber.
Alla base del hassidismo vi è un’esperienza religiosa intesa come immediata, Dio è presente in ogni cosa ed azione pura, una grande libertà interiore sostituisce, per importanza, lo studio della Torah (centro, da sempre, dell’insegnamento rabbinico) che pur rimanendo fondamentale, passa in secondo piano rispetto alla pietà del cuore.
Portati a termine gli studi in medicina, egli apre a Berlino uno studio di pediatria ed in quegli anni milita in un partito socialista. Il suo spirito aperto ai problemi filosofici e religiosi, trova in quel periodo alimento nella cultura tedesca ed in quella ebraico-tedesca; nonostante le persecuzioni e l’esilio che sarebbero giunti infatti, Bernhard fu sempre molto lontano dal considerare la sua vita a Berlino, e la cultura tedesca, all’ombra dell’antisemitismo. Si arriva quindi ad una data che Bernhard considererà fondamentale, per la particolare fecondità, nonostante le sempre più minacciose condizioni socio-politiche. Siamo nel 1932.
1.1 Il 1932 . Un anno di svolta
Nel 1932 Ernst Bernhard conobbe il chirologo Julius Spier; anch’egli ebreo emigrato a Berlino e nato a Francoforte nel 1887, si trasferì a Zurigo per svolgere il lavoro analitico con Carl Gustav Jung. Spier, che fu direttore di banca, dipendente di una casa editrice e successivamente studente di canto, scoprì di avere una vera e propria vocazione per la lettura della mano e quella che egli chiamò psicochirologia. Aveva fama di medium, di “personalità magica”, di possedere una straordinaria capacità di introspezione psicologica ed il suo nome rimane strettamente legato alla più nota Etty Hillesum. Bernhard in particolare rimase colpito dall’insegnamento che nella mano di un neonato fossero ravvisabili le linee fondamentali determinanti l’evoluzione futura. Nell’Introduzione alla Mitobiografia, il testo edito da Adelphi che raccoglie, postumi, gli unici scritti pubblicati di Bernhard, Hélène Erba-Tissot, psicoterapeuta sua allieva,1 pone in risalto il valore della chirologia quale base di riflessione di una essenziale distinzione che diverrà fondamento di tutta la prassi psicoterapeutica di Bernhard: la distinzione tra destino individuale e destino collettivo dell’uomo. Ogni individuo partecipa ad un’eredità e destino comune, assieme alla sua epoca, al suo popolo, alla sua famiglia, destino “trasmesso” dagli ultimi rappresentanti di questa lunga catena, i suoi genitori. Erede di tutto ciò, l’uomo deve cercare il suo peculiare posto nella società in quanto membro di essa. Ma l’essere umano porta in sé un’altra fondamentale tendenza: quella a differenziarsi dai propri simili, dal collettivo, sino a compiere un’esistenza unica e a divenire unico, come uniche sono le linee della mano nella loro disposizione. Ma non si tratta, come fa notare la Tissot, di fraintendere la tendenza alla differenziazione con un desiderio di originale stravaganza, caricatura mal riuscita
1 Erba-Tissot,H.,in Bernhard E.,1969.
di ciò che Carl Gustav Jung ha chiamato istinto all’individuazione. Quanto più l’uomo diverrà unico nella sua individualità, tanto più riuscirà a trovare nella società il posto che è suo, gli appartiene e gli compete, quello che nessun altro può occupare così perfettamente.
Sul suo tavolo di lavoro, contemplando una statua del Buddha, Bernhard riflette sulla catena delle incarnazioni passate, sul divenire dell’essere, sul contatto con innumerevoli elementi collettivi, attraverso i quali giunge a differenziarsi l’unicum, il singolo. E delle incarnazioni passate l’uomo porta con sé il karma, ecco il motivo per il quale Bernhard parlerà spesso di destino “karmico” anziché collettivo.
Esaminando le linee delle due mani, studiando l’astrologia per tutta la vita, e occupandosi di taoismo, di cui era – come si vedrà – profondo conoscitore ed ammiratore, Bernhard giunse a comprendere e a formulare l’importanza di queste due tendenze, al collettivo e all’individuale, prima ancora, ci tengo già ora a sottolinearlo, di incontrare il pensiero di Jung. E difatti Bernhard riconobbe successivamente la decisiva importanza del processo d’individuazione junghiano, riconoscendo il confronto tra individuo e valori collettivi quale elemento portante e centrale della psicologia di Jung, che non a caso egli preferiva chiamare, piuttosto che psicologia analitica, “psicologia del processo di individuazione”.
E del 1932 sono anche i primi grandi sogni di Bernhard, primi forti ed importanti elementi di una vitale attenzione che egli avrà sempre nei confronti della vita onirica, del mondo delle immagini, della “quarta dimensione” per dirla con parole sue. Egli stesso scriverà che a partire da quell’anno germogliarono tutte le sue maggiori intuizioni e presero forma, a partire anche dai sogni, i grandi temi esistenziali che avrebbero dato l’orientamento decisivo alla sua vita.
Appunta un sogno della notte fra il 30 e il 31 dicembre 1932: “Mi vien detto in sogno che la mia vita è benedetta come quella di Tobia e che sentirò consapevole, la guida di Dio.”2 Trentatre anni più tardi, il 9 maggio 1965, dettando un commento a questo sogno, dirà : “Posso dire che in questo sogno è racchiusa tutta la mia vita fino a oggi; non ho fatto altro che cercare di realizzarlo.”
2 Ibidem,pag.3.
1.2 L’incontro con C.G.Jung
“Jung mi aveva prospettato di lavorare presso di lui come assistente. Ma non se ne fece nulla. Questo rapporto non chiarito tra Jung e me si è trascinato a lungo: una situazione piuttosto spiacevole.”3
Il primo incontro tra Ernst Bernhard e Carl G. Jung, che segnerà l’inizio di un rapporto difficile, complesso, segnato da avvicinamenti e silenzi singolari, è da ascriversi al gennaio del 1934. Rileviamo questa data da una lettera dello stesso Bernhard del 15 ottobre 1934, nella quale egli scrive a Jung facendo riferimento al loro primo incontro, nel gennaio dello stesso anno, in cui conversarono su di una immagine dipinta da Bernhard.4 Quest’ultimo, dopo aver svolto due analisi freudiane con Sandor Radò e Otto Fenichel, aveva svolto a Berlino due analisi junghiane con Kathe Buegler (1898-1977) e Toni Sussmann (1883-1967).
Con la lettera sopra citata, con la quale Bernhard chiede espressamente di svolgere un lavoro psicologico personale con Jung, si da il via ad un carteggio quanto meno particolare, curato e commentato da Giovanni Sorge, che riflette il poco chiaro rapporto che intercorse tra i due medici.
Nel 1935 Bernhard ebbe il primo soggiorno presso Jung a Zurigo, nella stagione invernale, dopo che questi aveva più volte espresso l’impossibilità di incontrarlo a fronte dell’enorme mole di studio e lavoro. La formazione fu quasi sicuramente molto breve, visto che già nel gennaio del 1936, in una lettera da Berlino a Marie-Jeanne Schmid, prima segretaria e collaboratrice dello psicoanalista svizzero, egli afferma di sperare di “poter fare di quando in quando una seduta anche con il prof. Jung.”5 Intanto Bernhard avrebbe continuato il suo lavoro con la nota analista Toni Wolff, pur richiedendo nuovamente, ma invano,
3 Bernhard, E., 1969, pag. 12.
4 Sorge G., a c. di, 2001.
5 Bernhard E., in Sorge G., a c. di, 2001, pag.27.
degli incontri personali con Jung, dal quale ottenne un attestato che garantiva la prosecuzione della formazione in psicoterapia con propri collaboratori. In realtà la risposta di Jung appare fredda, rispetto ad una fervente richiesta scritta di incontro, tra l’altro sullo sfondo, accennato da Bernhard, di un imminente scelta di trasferimento dalla Germania per la sua appartenenza ebraica, condizione che iniziava a divenire rischiosa.
Bernhard inoltre parla, sempre con estrema sintesi e riservatezza, del suo lavoro analitico e chirologico, e della compagna viennese Dora Friedlaender6 (1896-1998), che diverrà sua moglie in Italia dopo la Liberazione, oltre che analista junghiana e sua collaboratrice. La loro relazione, essendo Dora non ebrea, fu un ulteriore motivo che spinse Ernst a lasciare la Germania, e forse segnò la visione ecumenica che egli caldeggiava anche nelle coppie, sostenendo con entusiasmo i matrimoni misti, come mi ha raccontato, con un aneddoto di vita personale, Margherita Pieracci Harvell.7
Con la lettera del 6 agosto 1936 Ernst Bernhard richiede un altro attestato al “prof. Jung”, che ne certifichi le conferenze zurighesi sulla lettura della mano e sostengano la sua formazione psicoterapica oltre che, e ciò viene rimarcato esplicitamente, la sua ricerca e pratica in chirologia. L’attestato ha il compito di facilitare l’espatrio in Inghilterra, dove Bernhard ha deciso di emigrare e dove vuole continuare la formazione analitica.
A questo punto, sospendiamo temporaneamente l’esame del carteggio fra il maestro e l’allievo, contrassegnato da una ricerca emotivamente calda di Bernhard e da un certo ( professionale ?) distacco di Jung, per dare spazio agli
6 Dora Friedlaender diverrà la sua seconda moglie; Bernhard, scelto l’esilio volontario, si separò dalla prima moglie, anch’ella non ebrea, e madre dei suoi figli: Silke e Michael.
7 Pieracci Harvell, Margherita, 2004, comunicazione personale.”…Bernhard mi disse subito del suo matrimonio misto e fece grandi elogi dei matrimoni misti, di cui pensava, all’opposto del Priore Roger Schultz (di Taizè, n.d.r.), che avvicinassero i gruppi invece che irrigidirli sulle loro posizioni…”
eventi di natura biografica che segnarono la vita del pediatra berlinese, oltre che quella, inevitabilmente, di tanti intellettuali italiani del Dopoguerra.
1.3 Bernhard arriva in Italia
Lasciati Zurigo ed il rapporto breve ed intenso con Jung, Bernhard tornò a Berlino “per emigrare pochi mesi dopo, diciamo così, ‘per caso’, in Italia.” Il tentativo di emigrare in Inghilterra infatti fallì.
Gerard Adler, analista junghiano amico intimo di Bernhard, che faceva parte del comitato appositamente istituito dal The Home Office, il Ministero degli Interni inglesi, e che si adoperò per far accettare la domanda, racconta ad Aldo Carotenuto perché questa venne respinta: “Bernhard himself had written in his application that he was interested in and worked with astrology.” Carotenuto così aggiunge e commenta : “il presidente della Commissione,(…) con le stesse parole di Adler “a well known English psychiatrist”, era assolutamente contrario all’entrata di Bernhard in Inghilterra. E’ proprio il caso di dire che la storia della Psicologia analitica in Italia era scritta nelle stelle!”9
L’aneddoto difatti stupisce e sorprende non poco: a mio avviso non menzionare i propri titoli medici e la formazione analitica in corso, per dichiarare di volersi occupare di astrologia è per lo meno singolare, ancor di più se si pensa al clima dei tempi, così vicini ad essere coperti dal manto scuro del Nazismo. O forse si dovrebbe tentare di comprendere il credo bernhardiano, votato alla dichiarata diversità, come ebbe a dire a Paolo Aite “Mi presento per come sono, nella mia differenza.”10
8 Carotenuto, A., 1977
9 Ibidem, pag. 45.
10 Aite, P., in Aa. vv., 1996.
Questa esibita singolarità è inoltre esperienza di moltissimi suoi allievi, che al primo appuntamento si sentivano chiedere l’ora e la data di nascita, o vedevano sulla scrivania l’ I Ching, il Libro dei Mutamenti, consultato con assiduità, senza che ciò andasse per altro a scapito di un lavoro analitico serio e svolto con responsabilità. Altre pagine saranno comunque dedicate al modus operandi di Bernhard e alla sua più o meno discussa libertà d’azione.
Torniamo a Berlino; rifiutata la domanda in Inghilterra, Bernhard, escludendo Israele (come fa notare Erba-Tissot, e a me viene da pensare alle numerose riflessioni del Nostro sul nomadismo ebraico, mitologema che egli sentiva di ri- vivere) scelse l’Italia, e verso il Natale del 1936 arrivò a Roma con Dora, la sua compagna. Nel gennaio del 1937 Bernhard scrisse una lettera a Jung, ultima testimonianza prima dei dieci anni di silenzio che seguiranno tra i due, e che, quasi paradossalmente, vedono i primi germogli della Psicologia Analitica in Italia; vi si legge dell’arrivo a Roma da quattro settimane, della ripresa del lavoro con pazienti di lingua tedesca, in attesa di apprendere sufficientemente l’italiano, e dell’enorme speranza di Bernhard, iscritta in quel senso sovra-personale di un destino da attuare : “(…) sembra (…) che io finalmente arrivi alla Terra”. La missiva si conclude con l’ “eterna gratitudine” espressa dall’allievo al maestro.11 Nonostante la fallita collaborazione e i rapporti non esattamente lineari, dovuti secondo alcuni allievi di Bernhard, a differenti tipologie caratteriali, è possibile affermare probabilmente che la relazione, anche transferale, fu sicuramente intensa, e che Bernhard vedesse comunque in Jung un grande teorico ed un punto di riferimento culturale fondamentale, anche se non unico. Un maestro, potrei asserire in accordo con Giovanni Sorge12, pur riconoscendone forse i limiti
11 Bernhard E., in Sorge G., a c. di, 2001.
12 Sorge G., comunicazione personale.
umani, accettando per così dire lo scarto tra il pensatore-teorico e l’uomo nella relazione personale.
Non si conosce molto dei primi anni trascorsi a Roma da Bernhard; egli andò a vivere con la futura moglie al civico numero 12 di via Gregoriana, a pochi passi da Trinità dei Monti, dove i due vissero per tutta la vita, e dove ancora oggi il campanello riporta il nome di Dora. Abitazione e studio che divennero un piccolo fulcro per moltissimi pazienti ed allievi, futuri analisti che oggi ritroviamo nelle più importanti associazioni junghiane, italiane ed internazionali, e grandi artisti come Federico Fellini, gli scrittori Giorgio Manganelli e Natalia Ginzburg, solo per citare i più noti al grande pubblico.
I primi anni italiani comunque vedono una stretta amicizia di Bernhard con i grandi nomi della psicoanalisi italiana, a cominciare da Edoardo Weiss, con il quale ebbe una sincera amicizia e profondi legami professionali, e Cesare Musatti, che ha raccontato13 inoltre del sostegno umano e professionale che Weiss ricevette da Bernhard durante una grave crisi di sconforto, dovuta alla promulgazione delle Leggi razziali in Italia. Sin dall’inizio quindi furono buoni i rapporti tra i freudiani italiani e “l’ ex – discepolo di Radò e Fenichel, che conosceva bene la teoria e la tecnica freudiana, seguiva Jung e pensava con la testa propria” come dice lo psicanalista Claudio Modigliani,14 che conobbe Bernhard nel 1945 e non esitò ad inviargli dei pazienti e ad intessere un rapporto di affetto e stima reciproci.
Bernhard inoltre fu l’analista della moglie di Weiss, Vanda, e amico di Nicola Perrotti, altro nome importante della psicanalisi freudiana in Italia, che lo fece entrare nel comitato d’onore della sua rivista, Psiche. Rapporti cordiali ed aperti, tanto che Bernhard fu invitato nel 1937 al congresso romano della Società
13 Musatti, C., in Carotenuto A., 1977, pag. 68
14 Modigliani C., in ibidem, 1977.
italiana di Psicanalisi, partecipandovi con un’Introduzione allo studio del sogno, occasione nella quale diede prova, secondo la mia opinione, del suo modo di operare e di intendere lo studio e la ricerca, dimostrando la sua apertura di pensiero, dicendo : “Non si tratta di dichiararsi appartenenti a una o a un’altra scuola, non si tratta di scegliere l’etichetta col nome adatto per la psicologia che si vuole studiare, ma soltanto di apprendere più verità psicologiche possibili, senza trascurare nessuna fonte.”15
Ed in questi anni l’interesse psicologico e religioso di Bernhard trovano respiro anche tramite l’amicizia con l’orientalista Giuseppe Tucci, studioso di primo piano e allora Presidente dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, che all’epoca stava scrivendo un libro sui mandala, oggetto di conversazione e di incontro tra i due. Amicizia e stima che furono alla base di un significativo evento della vita di Bernhard: la liberazione dalla prigionia.
15 Bernhard E., Introduzione allo studio del sogno, in Aa.vv., 1996.
1.3.1 L’arresto, la libertà
All’entrata in vigore delle Leggi razziali in Italia, la vita ed il lavoro per gli intellettuali ebrei si fecero molto difficili. Ernst Bernhard venne arrestato il 18 giugno 1940, assieme ad altri, e trascorse otto giorni prigioniero nel carcere di Regina Coeli. Di lì, fu deportato nel campo di internamento di Ferramonti, presso Cosenza. Egli, come narra la Erba-Tissot, vi andò con il diario e l’I Ching, disposto a vivere consapevolmente ciò che il destino gli stava riservando. E non si lasciò difatti abbattere, si mise a disposizione degli altri internati, dai quali fu eletto rappresentante, e si dedicò al suo lavoro e all’analisi dei suoi sogni.16
Fu grazie all’intervento di Tucci, che Bernhard poté lasciare il campo, l’11 aprile 1941: “Quando le leggi razziste furono introdotte in Italia, io non potei tollerare che la scienza fosse violentata e tradita per così crudeli, stupidi miti . E profittando di alcune amicizie, vissute al di fuori delle ideologie correnti (ce n’erano molte), feci del mio meglio perché l’amico e lo scienziato fosse restituito alla tranquillità degli studi e con lui parecchi altri.”17
Bernhard stesso negli ultimi mesi di vita scrisse a riguardo: “Nel 1941, quando ero internato in Calabria, passai il Venerdì Santo solo, sotto un fico, leggendo e digiunando, davanti a me il paesaggio del Mediterraneo, che mi ricordava il paesaggio palestinese. Quando la sera mi avvicinai al campo d’internamento, mi venne incontro il brigadiere della polizia e mi disse: ‘Dottore, è arrivato il telegramma’. Ero libero. Comprai vino rosso e dolci per i miei compagni di prigionia e nuovi amici, festeggiai con loro l’addio e il giorno seguente partii in tassì, con fichi e cioccolata, per Amantea e la notte seguente
16 “Gli fu permesso di portare all’interno del campo anche dei libri di studio e potè esercitare la professione medica con i suoi compagni di prigionia. Non si lamentò mai di quell’esperienza.” Trevi, Mario, 2004, comunicazione personale.
17 Tucci G., in Carotenuto A., 1977.
per Roma. La domenica di Pasqua arrivai in via Gregoriana, con una completa amnesia di tutto ciò che prima della mia prigionia era avvenuto nella mia abitazione, tanto per quel che riguardava me che i miei pazienti.”18
Non si può omettere di menzionare, a questo punto, il sogno di Ernst Bernhard del 1935, che egli portò al suo primo incontro con Jung, a Kuessnacht, nel quale egli veniva nutrito e salvato da un soldato dell’esercito nemico, un italiano con il viso da indiano, dopo la morte dei genitori. Nel 1964 Bernhard commenterà il sogno, come un’avvisaglia delle vicende che sarebbero accadute, e come la fine di un primo “ciclo karmico”: salvato dall’indologo Giuseppe Tucci, verrà a conoscenza della tragedia dei propri genitori, per i quali essendo prigioniero non aveva potuto fare cosa alcuna. Il padre morì in un campo di concentramento in Polonia, la madre si tolse la vita a Parigi, per disperazione.19
Tornato finalmente a Roma, colpito da amnesia, visse blindato in una stanza attigua alla sua abitazione sino alla Liberazione, un muro lo separava da Dora, ma riprese a leggere e studiare, in modo particolare la filosofia tedesca e la critica biblica protestante. Molti scritti, che si ritrovano editi nella Mitobiografia, risalgono a questi anni di forzato nascondimento e riguardano ad esempio le meditazioni di Bernhard sul concetto di entelechia, uno dei cardini del suo pensiero, ma anche appunti e riflessioni su termini e costrutti della psicologia junghiana.
La situazione socio-economica e politica di quegli anni si fece gravosa in Italia, e si ripercosse anche sui coniugi Bernhard e sugli intellettuali a loro vicini: Edoardo Weiss emigrò nel 1938 negli Stati Uniti, Claudio Modigliani dovette vivere clandestinamente, sfuggendo periodicamente alle retate nazi-fasciste, e con Nicola Perrotti e Cesare Musatti, si riunì successivamente attorno ad Emilio
18 Bernhard E., 1969, pagg. 228-229.
19 Bernhard E., 1969, pag. 7.
Servadio per ricostituire il nucleo freudiano.20 L’intersecarsi delle vicende esistenziali di questi intellettuali creò, quasi per contrasto, un’atmosfera di apertura, rispetto e comprensione nel clima oscurantista della Guerra, e si crearono rapporti personali intensi, vivi, caldi.
Lascio quindi spazio alla testimonianza di chi visse quel periodo, iniziando da Bianca Garufi, scrittrice ed allieva di Bernhard, una della prime: “ Uscivo dalla resistenza, ero una comunista militante, avevo una formazione marxista. Gli dissi che andavo da lui per mettere ordine nella mia psiche né più né meno di come si va dal dentista per mettere in ordine la dentatura. Accettò di buon grado e con un sorriso la funzione che gli attribuivo, anzi per mettermi maggiormente a mio agio mi disse che durante la guerra del ’15-’18 aveva svolto in Germania attività politica come socialista (…). Ovviamente aveva capito che non avrei allora potuto lavorare con lui se non su un piano in qualche modo di parità. E di questa comprensione ( e del sacrificio, che di certo per lui comportava ) oggi che posso esserne cosciente, gli sono grata”.21
Il ricordo di Mario Trevi, che mi ha raccontato di aver conosciuto Bernhard: “ verso il 1952. Ero a Roma dal’50, ad Ancona avevo lasciato un residuo della mia famiglia; residuo perché ero orfano di madre dai dieci anni, e di padre dal ’49. Naturalmente soffrii di un certo disagio, direi nulla di grave se non qualche accenno ad una depressione di carattere reattivo:le condizioni reali e concrete non erano molto buone. Sentii parlare di Bernhard -iniziava a divenire conosciuto all’interno di una ristretta cerchia- da alcuni amici e allora mi rivolsi a lui. Fu molto disposto ad aiutarmi e mi venne incontro anche per quello che riguarda l’onorario:Bernhard aveva il criterio dell’onorario flessibile, e cioè adattava l’onorario a seconda delle possibilità del paziente; le mie possibilità erano molto
20 La Società psicoanalitica italiana fu “sciolta d’autorità” nel 1938.
21 Garufi B., in Carotenuto A., 1977.
ristrette e di conseguenza anche l’onorario era accessibile. Mi rivolsi naturalmente per un’analisi personale: credo che Bernhard mi aiutasse molto in questo e dopo pochi mesi, mi trovai a mio agio. La psicoterapia non era di carattere intensivo ed io potei in breve tempo affrontare tutti i miei problemi.”22
A quegli anni risale anche l’incontro tra Bernhard e Cesare Musatti, che racconta: “ Certo che ho conosciuto Bernhard, che era una persona di grande valore non soltanto sul piano scientifico ma anche sul piano umano. Ed ho poi avuto con lui rapporti indiretti, anche più numerosi, attraverso pazienti di cui ci siamo occupati entrambi. Uno di questi è l’ingegner Adriano Olivetti.(…). Pensai già allora che egli sarebbe stato più adatto ad un’analisi junghiana. Effettivamente dopo la guerra egli fece un certo periodo di analisi con Bernhard.”23
Il noto industriale ed intellettuale Adriano Olivetti, nella cui fabbrica si nascose per un certo periodo Musatti, fondò anche la casa editrice Di Comunità, per la quale lo stesso Musatti tradusse nel 1942 Tipi psicologici di C.G.Jung. A riguardo ha dichiarato Musatti: “Sul piano culturale non ho assolutamente preclusioni. Credo ciò del tutto compatibile con un’ortodossia freudiana. Freud serbò rancore verso Jung tutta la vita, ma non ha mai messo in dubbio la sua genialità.”24
Questa, secondo la mia visione, è un’ulteriore testimonianza della nuova spinta vitale presente nel pensiero e nella cultura post-bellica italiana, del dialogo, oltre che umano, anche professionale, tra rappresentanti di scuole di pensiero e teorie di riferimento differenti, ma accomunati probabilmente dalla passione per la ricerca e della sua condivisione, per il confronto serio, aperto e rispettoso.
22 Trevi, Mario, 2004, comunicazione personale.
23 Musatti C., in Carotenuto A.,1977.
24 Ibidem, 1977.
Ed è in questa atmosfera culturale che si staglia la carismatica figura del triestino Roberto “Bobi” Bazlen.
1.3.2 Bobi Bazlen e l’esperienza editoriale
Roberto “Bobi” Bazlen è da considerarsi altro personaggio-chiave per l’evolversi della cultura italiana, ed appartiene a quella schiera di intellettuali e pensatori destinati probabilmente a rimanere sempre in parte nell’ombra, lontani da un riconoscimento della loro attività che vada oltre la cerchia stretta degli addetti ai lavori.
Nato a Trieste da padre tedesco e madre italiana, Bobi Bazlen giocò un ruolo di primo piano nel diffondersi della cultura mittel-europea in Italia, grazie al suo bilinguismo e alla sua vivace intelligenza, che ne fecero amico sin da giovane di poeti e scrittori (su tutti Eugenio Montale, e poi Umberto Saba, alla cui figlia Linuccia si legò per un certo periodo, Alberto Moravia ed Elsa Morante); lettore assiduo ed attento, traduttore (primo) di grandi opere, contribuì moltissimo alla diffusione in Italia di nomi quali Svevo, Musil e Kafka, anche grazie al ruolo editoriale che ricoprì.
Intorno al 1933 – ’34 si trasferì da Trieste a Milano, dove ebbe come amici Adriano Olivetti, con il quale progettò le Edizioni di Comunità, e Luciano Foà, con il quale diede vita alla casa editrice Adelphi; da qui si spostò in seguito a Roma, dove arrivò nel 1939, andando ad abitare in un piccolo appartamento di via Margutta. Durante la Guerra, lui che aveva già una solida preparazione sui testi di Jung, conobbe Ernst Bernhard, e forse proprio grazie al tramite di Olivetti. I due si frequentarono moltissimo, avendo in comune oltre alla psicologia analitica, anche lo studio dell’astrologia e dell’I Ching; Bazlen raccontò moltissimo del medico berlinese agli amici intellettuali (ad esempio
Natalia Ginburg, Angela Zucconi, Cristina Campo) spesso consigliando loro di incontrarlo e conoscerlo. Scrive Manuela La Ferla: “Sempre a Roma Bobi conosce colui che più di chiunque altro avrà un influenza decisiva sulla sua esistenza: Ernst Bernhard (…). Per molti aspetti essi appaiono uno l’immagine speculare dell’altro, e infatti tra di loro sembra come verificarsi una perfetta corrispondenza empatica. I molteplici interessi di Bazlen trovano, attraverso il suo insegnamento diretto, quasi una consacrazione a linguaggio unitario. Grazie a lui, sia l’attenzione all’astrologia, cui entrambi credevano fermamente quale strumento ulteriore di decifrazione e comprensione, che il filtro mobile della chirologia e le infinite correlazioni con la filosofia orientale vengono collegate tra loro e analizzate in rapporto al pensiero e alle teorie di Carl Gustav Jung. L’attitudine al dialogo, e la capacità di mettere in relazione i fenomeni più disparati, sia che giungano dall’inconscio, sia che provengano dal mondo reale – base stessa dell’insegnamento di Bernhard – sembrano così sposarsi, in perfetta simbiosi, al peculiare temperamento di Bobi e al suo vivissimo senso delle coincidenze. L’intellettuale tedesco aveva fondato la sua terapia sul concetto del proprio destino, di cui bisogna ritenersi responsabili come dei propri sogni, non scindendo vita interiore ed eventi esterni, ma predisponendosi alla ricezione dell’entelechia : ‘ciò che porta in sé il fine’. E proprio in questo abbandono, quasi religioso al proprio destino, rendendosi virtualmente indipendenti dal collettivo della socialità è celata una delle chiavi di lettura più autentiche di tutta l’esistenza di Bazlen.”25Insieme, Bernhard e Bazlen, furono determinanti per il lancio editoriale di opere sino ad allora inedite in Italia; Mario Ubaldini, il proprietario dell’Astrolabio, conobbe Bernhard grazie a Bazlen, ed iniziò così una collaborazione che durò dieci anni (dal 1945 al 1955), durante i quali il letterato triestino e l’analista berlinese diedero vita alla rinomata collana Psiche e
25 La Ferla, M., 1994.
Coscienza, “Collana di testi e documenti per lo studio della psicologia del profondo”. Con essa verranno pubblicati tra l’altro Psicologia e alchimia di Jung, tradotto da Bazlen, la prima edizione italiana assoluta dell’I Ching , ed il noto volume spessissimo regalato da Bernhard ai suoi pazienti ed allievi: L’abbandono alla provvidenza divina, del gesuita Jean-Pierre De Caussade; quest’ultimo testo fu edito proprio per volere di Bernhard, che ne curò anche la prefazione ed al quale era profondamente legato, ravvisando in esso uno scrigno fecondo di spiritualità “quotidiana”, e ritrovando in esso la sapienza e l’atteggiamento “terapeutici” di coloro che sanno affidarsi provvidenzialmente e con fiducia ad un volere superiore, percepito come pregno di senso. Un libro cattolico, secondo molti vicino al Tao te ching, in cui si ripropone un tema caro a Bernhard, quello appunto dell’abbandono interiore.
Ubaldini stesso ha riferito ad Aldo Carotenuto dell’importanza che Bernhard e Bazlen ebbero per la riuscita del progetto culturale – editoriale, anche perché il primo aveva contatti con i freudiani più in vista in Italia a quei tempi e la scuola di Zurigo, ed il secondo, con le numerosissime e prestigiose amicizie, portava con sé una fetta della cultura mittel-europea.
I primi titoli della collana risalgono al 1947 e sono due testi di Jung: Psicologia ed educazione e Sulla psicologia dell’inconscio. Seguiranno, l’anno successivo testi di Freud, Jung e Balint, successivamente di Jaspers, Wickes, Tucci, Adler, Kereny…E mi pare giusto segnalare che, all’incirca nello stesso periodo, più precisamente nel 1950, Bianca Garufi discusse la sua tesi di laurea, la prima in assoluto in Italia su Jung.26
26 Bianca Garufi scrive rispetto alla sua tesi:”…il cui titolo era La psicologia e la dinamica della personalità nell’opera di C.G.Jung. Per discutere questo lavoro dovetti farne richiesta alla facoltà di Medicina, pur essendomi laureata in filosofia:la facoltà di Psicologia era ben lungi dall’essere istituita. La mia fu la prima tesi di laurea sull’opera di Jung discussa in una Università italiana.” Aa.vv., 1996.
1.4 I primi junghiani in Italia
Al civico numero 12 di via Gregoriana iniziò un flusso continuo e forse silenzioso di una intellighenzia ricca e varia, composta da pazienti ed allievi, artisti e medici, scrittori ed aspiranti analisti, spesso gli uni all’oscuro degli altri come mi ha fatto notare Paolo Aite, allievo di Ernst Bernhard.27 E del resto la figura in penombra che ho ricavato dalle mie ricerche e letture su Bernhard, mi restituisce un’immagine singolare ma nascosta, non eccentrica, spesso amata e quasi ai limiti della leggenda, altre volte meno idealizzata ed anzi faticosamente accettata. Il muoversi tra saperi certo non convenzionali (si pensi all’uso dell’I Ching e dell’astrologia, oppure della chirologia) , la radicata ed aperta religiosità
– ebraica ma legatissima alla figura del Cristo, con una profonda attenzione alla filosofia taoista -, un’agire terapeutico lontano dall’ideale dell’ “analista laico” e non direttivo, hanno sicuramente giocato un ruolo forte nel far sentire scomoda l’eredità lasciata da Bernhard. Anche se, d’altro canto, è facile ricevere un’impressione vicina al carisma di un “guru”, di un maestro, di una guida spirituale, ( si badi senza nessuna accezione ironica o svalutante ), che pratica un’arte maieutica, “sciamanica”, non coartante. Un uomo aperto alla ricerca, ai fenomeni, affascinato dai misteri dell’esistenza, un analista attento alla ricerca di Senso, per sé e per gli altri.
Parlando con quegli allievi o pazienti che ho avuto la fortuna di poter incontrare, ho trovato conferma di quanti sentimenti e relazioni differenti Bernhard abbia potuto seminare; spesso, lo ribadisco, viene ricordato con affetto e devozione, con la sentita riconoscenza che si offre ad una personalità forte e carismatica, fuori dal comune.
27 Aite, Paolo, 2003, comunicazione personale.
Altre volte la sua immagine è ridimensionata, l’accento si sposta anche sulle ombre dell’uomo Bernhard, senza depredarlo per altro di meriti riconosciuti. E c’è anche chi, come Antonino Lo Cascio, esponente noto dello junghismo in Italia, sente i tempi non ancora maturi per parlare del proprio personale rapporto con l’analista berlinese, preferendo il silenzio.28
Nel 1949 si avvicina a Bernhard Gianfranco Tedeschi, allora libero docente di Psichiatria, divenendone allievo e collaboratore, e con lui Mario Moreno anch’egli professore universitario all’Università di Roma. Nel 1950 di conseguenza la psicologia analitica fa il suo ingresso universitario. Ed il gruppo di allievi che intanto cresceva avrebbe poi proseguito l’insegnamento accademico del pensiero junghiano: a Milano con Silvia Montefoschi, Severino Rusconi e Marcello Pignatelli, a Firenze con Carlo Iandelli, Maria Teresa Colonna e Pier Nicola Marasco, a Pisa con Giuseppe Maffei e Francesco Don Francesco; a Roma con Corrado Pensa ed Aldo Carotenuto.
Ed accanto agli allievi, possiamo citare altri nomi illustri che trassero beneficio, forse un’ allargamento di vedute ed un respiro più ampio dall’incontro con Bernhard; penso a Federico Fellini, che parlò apertamente della dolce riconoscenza nei confronti dell’analista, Cristina Campo (al secolo Vittoria Guerrini) scrittrice riportata solo di recente ad una legittima attenzione, la traduttrice Gabriella Bemporad, l’artista e scrittore Gianfranco Draghi (che è pure analista), e molti altri.
Ed è in questi anni, dopo ben dieci di silenzio, che riprendono i rapporti con
C.G. Jung – argomento lasciato in sospeso -, con una lettera del 1947 da parte di Bernhard. Inizia così nuovamente un contatto epistolare, con qualche intermezzo di visita personale, contraddistinto da un’atmosfera più cordiale, più distesa anche se ugualmente formale, da parte di Jung.
28 Lo Cascio, Antonino, 2004, comunicazione personale.
In queste lettere, anche se non è escluso che ne esistano altre, rimangono la deferenza e la riservatezza di Bernhard, che ribadisce la grata riconoscenza nei confronti del maestro. Il dialogo fra i due riguarda molto poco la professione, vi è qualche riferimento a considerazioni di natura editoriale e alle ricerche astrologiche, ma sostanzialmente vi è uno scambio cortese, puntellato dai doni dei coniugi Bernhard assai graditi da Jung: alcuni testi (tra cui l’edizione italiana dell’I Ching, che avrebbe dovuto contenere una prefazione ad hoc di Jung, e l’ Abbandono alla Provvidenza divina) e soprattutto olive italiane di ogni tipo.
Al di là della natura particolare, dei contenuti della lettere, preme mettere in evidenza che Jung sembra avesse sentito parlare di Bernhard in questo decennio di silenzio, in quanto afferma di essere felice di ricevere “direktes Lebenszeichnen”, un diretto segno di vita.29 Ciò fa presupporre, come evidenzia Giovanni Sorge, che avesse ottenuto notizie per conto terzi; si tenga presente che sia Ernst che Dora avevano periodicamente contatti svizzeri, partecipando alle famose Conferenze di Eranos, ad Ascona30. Ed è parere dell’analista Adolf Gueggenbuel-Craig, conversando con Sorge, che Bernhard avesse molta fama, quasi leggendaria a Zurigo.
Le ultime lettere invece sono a firma di Aniela Jaffè, la nota collaboratrice di Jung e Dora Bernhard, per conto dei due analisti che invece scivolano in secondo piano, ponendo fine ad un rapporto indiscutibilmente ricco, come si vedrà anche dal materiale onirico riportato da Bernhard, anche se non sempre segnato da armonia e compatibilità.
29 Sorge, Giovanni, a c. di, 2001.
30 Fra le persone in amicizia con Bernhard presso Eranos, ricordo Erich Neumann e James Hillmann.
1.4.1 La nascita dell’A.i.p.a
Come si è visto, il gruppo di analisti intorno ad Ernst Bernhard diveniva sempre più consistente e prendeva forma la prima schiera di analisti junghiani in Italia. Alcuni di loro esercitavano già attività psicoterapica, altri provenivano da una formazione umanistica, molti tra loro erano medici avviati, con già alle spalle a volte delle analisi freudiane. Il nucleo era sicuramente composito e vario. Era interesse di Bernhard preparare un gruppo nutrito di allievi, tenendo loro seminari, incontri, oltre che, ovviamente, le analisi; mise a disposizione a questo proposito, dapprima l’abitazione-studio di via Gregoriana, e successivamente la Casa Sabatina, sul Lago di Bracciano, di sua proprietà. Spesso le riunioni degli allievi erano accompagnate da pranzi conviviali, atti a favorire un clima disteso di reciproca conoscenza ed incontro.
Silvia Rosselli, un’allieva “storica”, racconta: “Curava la sua stanza che era ad un tempo studio, camera da letto e salotto e nella quale ospitò nei primi tempi le riunioni dei suoi allievi.Questa stanza era in realtà composta di due stanze: la seconda, quella più in fondo, apparteneva in origine all’appartamento contiguo, e lì Bernhard aveva vissuto nascosto per molti mesi durante l’occupazione tedesca a Roma. Alla fine della guerra aveva ottenuto dal suo padrone di casa di potere incorporare questa seconda stanza abbattendo il muro divisorio. Era una stanza molto vissuta e si sentiva. (…) Lassù in quella camera c’era un senso di pace e di isolamento.”31
Bernhard possedeva una buona manualità, ed alcuni mobili erano stati costruiti da lui stesso; in fondo alla stanza vi era un armadio pieno di quaderni di appunti, sulla scrivania giaceva la statua del Buddha, alla parete era appesa una riproduzione della Sacra Sindone, con sopra un mandala da lui disegnato.
31 Rosselli, Silvia, in Carotenuto A., 1977, pag.176.
Fu questo il primo luogo d’incontro dei pionieri della scuola junghiana italiana, radunati in modo informale ed aperto attorno alla figura, un po’ centralizzante e probabilmente “paterna” di Bernhard; a questo proposito mi ha parlato Marcello Pignatelli, anch’egli fra i primi, di “una scuola pitagorica quasi, al cui vertice c’era, a dirigere, Bernhard.”32
Il nucleo più stretto, un manipolo di futuri analisti, partecipò con Bernhard nel 1958 al primo Congresso internazionale di psicologia analitica, a Zurigo, ed in quest’occasione il gruppo venne presentato a Jung. Lo stesso gruppo che si riunì sul lago di Bracciano, nella casa di Bernhard, il 26 maggio 1961, dando vita all’ Associazione italiana per lo studio della psicologia analitica (d’ora in poi: A.i.p.a).33
Lo sforzo di Bernhard era teso a mantenere il nucleo di giovani analisti lontano da dissidi, ma forse la sua personalità ed il ruolo che ricopriva lo fecero apparire ad alcuni come troppo direttivo, forse troppo presente. Da una parte si ha infatti il carisma, il sentimento religioso, il libero modo di rapportarsi al paziente, che probabilmente non era gradito a tutti, come si vedrà. Dall’altra Bernhard era, quasi in modo naturale, capostipite di una scuola, ed autorevolmente selezionava l’ammissione dei candidati analisti, che oltre all’analisi personale dovevano incontrare il suo “sentire” favorevole, responsabilità che veniva lasciata alla sua persona. Si badi, che l’ammissione in questione non è da intendersi come esageratamente chiusa o selettiva; semmai, come mi pare di capire, essa era, al contrario, quasi troppo libera; queste sono ad esempio le opinioni di Emilio Servadio ed Aldo Carotenuto (A.Carotenuto, 1977), il quale parla esplicitamente di una fiducia troppo facilmente concessa da Bernhard ad allievi che non avevano una necessaria preparazione. Inoltre altro
32 Pignatelli, Marcello, 2003, comunicazione personale.
33 Oltre ai coniugi Bernhard erano presenti:Mirella Bonetti, Giuseppe Donadio, Enzo Lezzi, Mario Moreno, Gianfranco Tedeschi, Francesco Montanari.
aspetto di acceso confronto tra i membri della neonata A.i.p.a. furono alcuni punti dello Statuto, in particolare il fatto che il Presidente avesse diritto di veto, questione che suscitò l’inizio di alcuni fermenti che portarono, successivamente alla scomparsa di Bernhard, a scissioni o allontanamenti.34 I primi sentori di dissidi sembra che toccassero sensibilmente Bernhard, forse anche per il suo stato di salute precario; l’ambiguità sul “delfinato”, sulla discendenza che sarebbe ricaduta per scelta di Bernhard sullo psichiatra Gianfranco Tedeschi, cozzavano con la partecipazione “democratica” all’Associazione. E pare inoltre che Bernhard fosse lontano dall’idea di istituzionalizzare il gruppo creatosi.35
Questa varietà di incontri e di opinioni sul personaggio-Bernhard si possono cogliere sia intervistando i suoi allievi e pazienti, sia sfogliando il numero della Rivista di Psicologia analitica che ne commemora il centenario della nascita. Esso è segno che la complessità dell’uomo e dell’analista non è sfuggita all’attenzione di chi lo ha incontrato, rivelando luci ed ombre del suo intenso cammino umano.
Marcello Pignatelli: “Parlare di Bernhard per chi ha lavorato con lui crea ovviamente non poche difficoltà : non a caso per esprimermi ho dovuto superare un’ostinata riluttanza. (…) Le mie resistenze allora erano ancora più tenaci e altrettanto trascurate, quando mi sembrava di sentire l’imposizione di una figura di padre benevolo ma certo che la sua ragione avrebbe prevalso, forte di una spiritualità, che quanto più fosse collusiva con i miei contenuti tanto
34 Pignatelli, Marcello, 2003, comunicazione personale.
35 Rosselli, Silvia, 2004, comunicazione personale.
maggiormente mostrava la forma dell’interdipendenza e disegnava l’aura impalpabile, ma sottilmente presente di uno sciamanesimo onnicomprensivo.”36
Silvia Rosselli, che chiama Bernhard “il mio maestro” scrive: “ Il dr. Ernst Bernhard, che a quell’epoca aveva sessant’anni, era alto, massiccio, con una testa del tutto calva che assomigliava a quella di un monaco buddhista. I suoi occhi erano scuri e calorosi dietro le lenti.(…) Dopo due anni circa dall’inizio della mia analisi, mi trasferii con la famiglia in Toscana, dove Bernhard venne come nostro ospite, ignorando la prassi che vieta rapporti fuori analisi con i pazienti. Fu in quell’occasione che Bernhard mi disse, in seguito ad un mio sogno, che io avrei potuto fare l’analista.”37
Con grande affetto ne parla Gianfranco Draghi: “Andai da lui in via Gregoriana 12, mi aveva fissato la prima seduta Cristina Campo. Suonai con molta trepidazione, perché per me era in gioco la mia vita, non vi andavo per fare l’analista oppure per sfizio.Volevo decidere insieme a lui il lavoro da svolgere. Mi aprì lui stesso, questo signore alto; una figura chiaramente mittel- europea.(…) Era un maestro hassidico… ed un uomo profondamente buono. Era, per la struttura psicoterapeutica ufficiale di allora, libero, infinitamente libero. Io non mi sono mai sentito coartato da Bernhard; la sua grandezza e statura, a parte l’incontro, che ha cambiato completamente la mia vita, sta nel messaggio dell’entelechia individuale, che mi sembra davvero fondamentale.”38
Queste infine le parole di Mario Trevi: “Con il passare degli anni direi che in me la figura di Bernhard si è molto chiarificata, sono scomparsi tutti gli elementi di critica che io portavo nei suoi confronti…Per tanto dalle sue luci e dalle sue ombre appare tutto sommato una figura positiva; per me certamente anche molto positiva. Bernhard aveva delle predilezioni, diciamo così, fra i suoi allievi, non
36 Pignatelli, Marcello, in AA.VV, 1996.
37 Rosselli, Silvia, L’analista che parlava di Dio, in Confronti , febbraio 2004.
38 Draghi, Gianfranco, 2003, comunicazione personale.
molto giustificate. Più tardi compresi che egli prediligeva gli allievi che avevano una qualche autorità universitaria, e capii anche perché: egli si sentiva, in qualche maniera, nella sua posizione di tedesco, ebreo, transfuga…insicuro. E l’appoggio di una certa autorità di carattere accademico poteva essere gradita, comoda. Naturalmente questo creava delle difficoltà per gli altri: i dissapori più gravi erano, direi, relativi a questa sfera che oggi appare del tutto insignificante. In questo senso almeno per me un grande mediatore fu Bobi Bazlen, che mi fece comprendere e accettare i lati più ‘oscuri’ di Bernhard.”39
Queste sono alcune brevi e frammentarie testimonianze che hanno però il fine di presentare alcuni tratti, dei bozzetti a posteriori, dell’analista berlinese.
39 Trevi Mario, 2004, comunicazione personale.
1.5. Morte di Bernhard
Gli ultimi anni della vita di Ernst Bernhard sono segnati da una salute cagionevole, dovuta alle crisi cardiache di cui soffrì. Traspare in questi anni il tentativo di lasciare forse qualche traccia, qualche riflessione scritta, e ci si imbatte nella difficoltà che egli nutriva per questa forma d’espressione. Lo scrivere ed il pubblicare restarono per Bernhard ostici e difficoltosi, come egli stesso ebbe a dire ad alcuni allievi. “Non so scrivere” si legge nella Mitobiografia, ma ciò non nasconde la realtà delle cose: Bernhard aveva il desiderio di offrire le sue meditazioni ed i suoi pensieri, tentando però di esporli nel modo meno personale possibile, e si preparò negli ultimi anni a redigere alcuni suoi scritti, a fornire commenti, tratti dai suoi numerosissimi diari, “grandi quaderni, alcuni dei quali scritti in carattere gotico.”40 Sembra che Bernhard li scrivesse quotidianamente ed era deciso inoltre a fornire, dettandoli, alcuni sogni importanti della sua vita esplicitandone un commento; la morte però sopraggiunse, e dei numerosi diari non si è più saputo nulla: non sono mai stati ritrovati.41
Il lavoro di Bernhard diminuì, iniziò a ricevere un numero minore di allievi, spesso non alzandosi dal letto; propose a quelli più stretti di darsi del tu. Fra questi, alcuni che erano medici lo assistevano anche durante le notti in cui si sentiva meno bene.
“Bernhard fu costretto in casa dalla sua malattia ( due infarti ) dal febbraio al maggio del ’65. Quando uscì di casa la prima volta alla fine di maggio fu molto lieto e dopo mi disse che ciò era avvenuto senza alcuna impressione, con molta naturalezza, e anzi precisò: ‘come un uccello che esce fuori dalla gabbia che
40 Pignatelli, Marcello, 2003, comunicazione personale.
41 Inoltre non sono più state ritrovate le cartelle cliniche di pazienti ed allievi, che Bernhard conservò con cura sino alla morte.
qualcuno lascia aperta’.(…) Pochi giorni dopo il suo primo infarto Bernhard fece un I Ching (37,4-13) e scrisse: ‘Io sono un pensionato della vita. In un certo senso assisto alla mia morte e ai miei funerali. Avrei potuto, non sono morto questa volta. Ed ora comincia la libertà della vita.’ Forse è per questo che la sua morte mi fece quell’impressione di leggerezza.”42
Durante l’ultimo periodo, nonostante l’angoscia esistenziale di simili eventi, Bernhard mantenne, a detta degli allievi, il suo spirito di ricerca, il suo interesse vivo per tutto ciò che riguardasse il “mistero Uomo”. Ed anche di fronte al mistero della morte, l’atteggiamento rimase saldamente consapevole, a volte quasi curioso.
“Nonostante il mio rapporto non facile ed entusiasta con Bernhard” racconta Pignatelli “devo dire che forse in punto di morte ho capito qualcosa di più di lui…Come medico sono stato spesso a fianco di persone che stavano per andarsene, ma raramente ho visto persone che volessero affrontare un momento simile con la consapevolezza e la preparazione di Bernhard..Ecco se una cosa mi ha stupito di lui, è proprio questa..”43 E gli fa eco Paolo Aite: “Nelle notti in cui lo assistevamo noi allievi medici, spesso si instauravano dei dialoghi notturni..Lui raccontava con sorpresa e non senza una certa angoscia, ma sempre con molta curiosità le sensazioni dell’infarto..diceva: ‘Sapete che è successo? L’altro giorno mi sono sentito partire, e mi sono chiesto: chissà cosa succede ora..’ Mi colpì moltissimo quella curiosità anche di fronte all’angoscia che ognuno di noi ha della morte..Questo elemento, punta di diamante dell’attenzione al fenomeno vitale, di cogliere sino in fondo, di farsi delle domande..mi ha toccato moltissimo.” 44
42 Rosselli, Silvia, in Carotentuo A., 1977.
43 Pignatelli, Marcello, 2003, comunicazione personale.
44 Aite, Paolo, 2003, comunicazione personale.
Ernst Bernhard morì la sera del 29 giugno 1965, vigilia del giorno in cui avrebbe voluto dare l’interpretazione di suoi sogni in rapporto ai dati concreti della sua vita. Nel rito della cerimonia funebre fu avvolto, per sua richiesta, nel Talèd , il mantello da preghiera, le cui frange vengono tagliate ad indicare che gli obblighi verso la vita sono terminati.
E’ sepolto nel cimitero israelitico di Roma.
1.6. Sulla Mitobiografia
In un dettato risalente al 1964, con lo stile essenziale che gli è proprio, Bernhard afferma: “(…)Di pubblicare queste cose non ho praticamente mai pensato. Mi sarebbe parso troppo personale. Solo quando ho visto la possibilità di pubblicare questo materiale senza con ciò essere personale, e anche da questo punto di vista porre per così dire la mia vita al servizio – non direi della generalità, ma al servizio di Dio – ho potuto pensare di mettere questo materiale a disposizione del pubblico, quale materiale intensamente vissuto e realizzato. (I miei sogni e l’I Ching hanno appoggiato la mia opinione che ciò sarebbe avvenuto solo dopo la mia morte).”45
Mitobiografia apparse nel 1969, a quattro anni dalla scomparsa di Bernhard, per le edizioni Adelphi. Il testo, assolutamente non di facile lettura, ebbe una diffusione notevole, ed ebbe anche una edizione tascabile per la Bompiani. Il titolo avrebbe dovuto essere Automitobiografia, secondo gli intenti di Bernhard ed avrebbe dovuto contenere le sue meditazioni rispetto al rapporto vivo tra la sua vita individuale ed il mito ebraico, cui egli sentiva di partecipare con la sua esistenza, convinto che dietro ad ogni arco vitale palpitasse, più o meno inconsapevolmente, un mitologema. Essere testimoni del proprio mitologema, significa divenirne testimoni consci e responsabili, portatori di un Senso e di una Storia più ampi nella quotidiana vita del singolo, il quale compiendo responsabilmente la propria essenza ed esistenza, scrivendo la sua biografia, partecipa all’influenza di un Tutto, in un rapporto dialettico tra individuale e collettivo. Si tratta di intraprendere il processo di individuazione, si può dire – in termini junghiani-, iniziare l’eterna avventura del divenire se stessi, distaccandosi dal magma collettivo, riconoscendone i condizionamenti, per poi tornare ad esso
45 Bernhard, E., 1969, pag.224
coscienti che attendere al proprio ruolo di Singolo, significa specularmente avere un ruolo storico, una parte da interpretare. La biografia individuale viene quindi letta in funzione del mitologema che alle sue spalle deve riaffiorare.
Persuaso da queste sue meditazioni, Bernhard dettò un mese prima della sua morte: “La valanga comincia in un punto e si estende fino alla trasformazione della coscienza collettiva.(…) Se però queste mie idee dovessero restare sepolte e sconosciute, nasceranno in un’altra psiche umana. Non ho alcun dubbio in proposito, ed è per questo che non mi preoccupo per ciò che riguarda una pubblicazione. Ma poiché tutto questo mi è avvenuto, sento che dovrei dirlo. Me ne difendo, l’ho sempre respinto -anche questo un tipico motivo ebraico- perché non so scrivere, eppure sono ben consapevole dell’importanza di queste cose.”46
Qui brevemente è possibile accennare al fatto che Bernhard percepisse una trasformazione del mito ebraico nel senso di un’integrazione ebraico-cristiana superiore. In un dettato del 1964 egli si esprime così: “ Una delle mie idee essenziali che voglio realizzare con la mitobiografia, è quella della cosiddetta presa di coscienza collettiva.”47
La cura della Mitobiografia fu affidata da Dora Bernhard a Hélène Erba- Tissot,48 che raccolse frammenti di diario, manoscritti, registrazioni al magnetofono, dettature, fogli dattiloscritti, riguardanti un vasto arco di tempo:
46 Bernhard, E., 1969, pag.231.
47 ibidem, pag.224.
48 Hélène Erba-Tissot nacque a Basilea da famiglia protestante, aperta alle scienze umane. Sposatasi nel 1929, si trasferisce nella Svizzera centrale, e a trentatré anni ha una figlia. Dopo la Guerra, torna a Basilea per proseguire gli studi in Giurisprudenza, ma nel frattempo si apre a diversi saperi. Dopo l’incontro con l’astrologa Marcelle Senard decide di partire per Los Angeles: è il 1952, ed Hélène incontra colui che diverrà, con parole sue, la sua guida spirituale: Paramahansa Yogananda. Dopo aver vissuto sei mesi nell’ashram di questi, ritorna in Europa viaggiando e insegnando Yoga. Nel 1961, invitata da alcuni amici a Roma, conosce Ernst Bernhard: sceglie di stabilirsi nella capitale. Diviene membro della neonata A.i.p.a e compie un’analisi didattica, legandosi molto a Bernhard grazie ad interessi e vedute comuni.
all’incirca dal dicembre del 1932 al giugno del 1965.49 La traduzione venne affidata a Gabriella Bemporad, anch’ella in rapporto con Bernhard da svariati anni.
Vi possiamo trovare meditazioni filosofiche-religiose, sogni, interpretazioni, immaginazioni attive, riflessioni sulla psicologia e sulla psicoterapia, il tutto senza ritocchi (a livello contenutistico) o commenti, cosa che a volte disorienta il lettore; anche perché i testi per la maggior parte non furono scritti in maniera definitiva per fini divulgativi. L’opera resta quindi frammentaria, anche se ricca, e densa a volte anche solo di enunciati essenziali. Tanto che forse il lettore può sentirsi chiamato in causa, possibile protagonista anch’egli di intuizioni ed opinioni dinnanzi a pagine che trattano di religioni e storia, sogni e politica, individui e popoli, sullo sfondo, appena tratteggiato, della vita dell’autore, vita che compare unicamente a sprazzi, rimanendo in gran parte taciuta.
Se di trama si dovesse parlare in questo libro, essa consta nel progressivo e continuo enuclearsi di un destino e di un mito individuali, in un chiarirsi crescente rispetto al proprio “posto”, alla propria insostituibile “missione” quotidiana. Esso rimane l’unica testimonianza scritta di Ernst Bernhard, complessa e variegata come l’autore: l’ebreo vicino a Cristo che contemplava i testi taoisti e buddisti, uomo aperto ad ogni fenomeno umano che suscitasse in lui curiosità o corrispondenza, lontano da ogni schema, categorizzazione, etichetta.
Paolo Aite, rispondendomi durante un’ intervista, ha affermato : “ Ad alcuni il suo modo di essere e di lavorare ha disturbato molto; a me personalmente no, anche se ero di formazione completamente diversa. Perché lui aveva un’attenzione particolare per i pazienti, rispettava moltissimo l’Altro.
49 Mitobiografia contiene inoltre l’unico scritto di Bernhard dato, in vita, alle stampe: ”Il complesso della Grande Madre. Problemi e possibilità della psicologia analitica in Italia.”, apparso sulla rivista Tempo presente , nel numero di dicembre del 1961.
Un segno buono che lui è stato un maestro, secondo me, è che ogni suo allievo ha assunto una sua strada assolutamente definita, nessuno lo ha imitato. In genere i cattivi maestri hanno tanti replicanti attorno a loro.”
Capitolo secondo
Ebraismo e spiritualità in Ernst Bernhard. Tra psicologia del profondo e credo religioso polimorfo
Dettato il 27 aprile 1965. Provengo da una famiglia ortodossa, da cui mi sono sciolto dopo la morte di mio nonno. Mio nonno paterno era un uomo semplice e pio, il cui padre, un hassid, era emigrato dalla Galizia con tutta la sua famiglia per seguire il proprio rabbi a Berlino.
Il mio vero nome suona in ebraico Hajim Menahem, che in italiano significa vita e conforto, conforto della vita. Per trasporre in tedesco i loro nomi e cognomi, come era fatto loro obbligo, gli Ebrei cercavano nomi che incominciassero con la stessa lettera dell’alfabeto. Nel mio caso per Hajim non era facile, e poiché mio nonno usava ripetere: “Seria (ernst) è la vita”,mio padre decise di chiamarmi Ernst. “Seria è la vita, gaia è l’arte”. Ho trovato che questo mi confaceva. La psicoterapia è un’arte e il mio senso dell’umorismo e dello scherzo ha confermato una nota gaia alla mia vita. “Seria è la vita, gaia è l’arte” è anche una combinazione di qualità ebraiche. Bernhard significa “duro o forte come un orso” (Baer), dove l’orso nel Nord corrisponde al leone nel Sud. Il nome germanico bernhard contiene le tre lettere costitutive del nome ebraico B R N, dove Br significa sempre Benrabbi o figlio del Rabbi; l’ultima lettera è la lettera iniziale del nome del rabbi, in questo caso Nathan poiché mio nonno così si chiamava, e poiché il primo nome passa da nonno a nipote, così quel rabbi si chiamava Nathan. Da ciò si rileva anche che provengo da una famiglia di rabbini.
Un altro antenato era Lippmann Heller, capo della Comunità ebraica di Praga, che venne accusato dal governo austriaco di essersi appropriato del denaro di certe tasse e fu condannato alla prigione. Lippmann ha scritto una meghillà in cui ha raccontato queste vicende e alla fine prega tutti i suoi discendenti di celebrare il giorno della sua liberazione. Dopo essere stato liberato dal carcere non trovò mai più una condizione stabile e peregrinò di luogo in luogo.
Il mio proprio periodo di prigionia durante la guerra l’ho sentito come una ripetizione karmica di quella vita.50
Questo dettato fu un tentativo sintetico di autobiografia da parte di Ernst Bernhard, ebreo di stampo hassidico sia per discendenza familiare, sia per adesione personale, maturata anche grazie all’incontro con il filosofo Martin Buber. Bernhard non fu ebreo praticante, ma riconobbe pienamente la propria appartenenza al popolo ebraico, ed in particolare ravvisava nell’hassidismo, seppur spogliato da ogni pretesa moralistica, gli aspetti più vitali dell’Ebraismo.
50 Bernhard, E. 1969, pagg. 227-28.
Il movimento hassidico51 è un movimento di rinnovamento spirituale nato in Polonia nel diciottesimo secolo da rabbi Israel b. Eli ‘ezer, conosciuto anche come Ba’ al Sem-Tob (abbreviato Best). Suo punto di partenza è la Qabbalah di Luria, che egli popolarizza maggiormente e spoglia del suo aspetto ascetico austero mettendo l’accento sulla gioia che l’uomo deve provare in permanenza a causa della presenza di Dio in ogni cosa. La radice di questa gioia deve essere l’entusiasmo interiore nato da un’emozione religiosa profonda che, nell’estasi, va fino all’oblio di se stessi. In questo modo tutta la vita dell’hassid, diventa servizio consacrato, vivificato in permanenza da un’intenzione spirituale profonda e da una concentrazione sull’essenziale. Quello che dovrebbe contraddistinguere l’hassid è prima di tutto la sua umiltà:ha coscienza del suo posto in un mondo essenzialmente caduco ma sa al tempo stesso di essere in comunione con mondi superiori la cui influenza benefica gli permette di arrivare al vero fiorire della sua personalità. L’uomo che raggiunge in questo modo il più alto livello spirituale è lo saddiq, il giusto per eccellenza, che compie una funzione di mediatore tra i mondi superiori e gli uomini della sua generazione. L’obiettivo principale dell’uomo che vive conformemente alle esigenze della vita hassidico è liberare le scintille divine che si trovano in ogni cosa e situazione, anche in quella più vili ed insignificanti, ed effettuare così la liberazione della shekinah, la presenza di Dio. Il movimento hassidico fa uso di un ampia letteratura, in particolare dei famosi racconti, brevi e spesso imbevuti di ironia.
Con questa brevissima parentesi ho voluto tracciare, abbozzare minimamente il retroterra culturale, nel variegato mondo ebraico, in cui si innestano la fede e l’esperienza religiosa di Bernhard.
51 Cfr. AA.vv., Grande dizionario delle religioni, 1990.
Egli non poteva non dirsi religioso52, e non poteva non rivolgersi all’Altro da sé con un atteggiamento religioso costantemente orientato al rapporto dialettico Io-Dio, convinto che l’unica libertà consistesse nell’adempimento di una volontà superiore, quella divina appunto. Emerge con forza, in Bernhard, un atteggiamento di vita, a mio parere percepibile anche nella pratica della psicoterapia, segnato dall’abbandono amorevole ad un Dio, ad un Senso, ad una Provvidenza, al Tao, che esclude ogni fatalismo ma che necessita invece della particolare ed attiva “sottomissione” del singolo, in senso operante. Un riconoscimento di essere parte e far parte di un flusso di Vita più ampio, in cui lo scorrere dei nostri giorni ha un preciso significato rispetto al Tutto; il divenire se stessi, entelechialmente,53 risulta così essere non solo un diritto, bensì un dovere per sé e per l’umanità intera, nel suo continuo sviluppo, pena la non- realizzazione, la non-evoluzione.
Vi è qui forse un deciso parallelismo con la psicologia di Jung, ovvero in special modo con il suo processo d’individuazione, con il rapporto Io-Sé; la differenza fondamentale sta nel fatto che Bernhard ha una visione schiettamente religiosa della vita e di ogni suo aspetto, rispondendo quindi ad una fede personale riconosciuta essenzialmente come tale, non come fenomeno psicologico. Qui il divario con Jung è più netto, ed il livello del discorso cambia completamente; proviamo a vedere perché.
52 Cfr. Bernhard , E., pag.222.
53 Bernhard riprende il termine entelechia dal biologo tedesco Hans Driesch (1867-1941), che così definiva la presunta presenza di un principio vitale immateriale che possiede tutte le proprietà dell’organismo, attuali e potenziali.
2.1 La spiritualità in Ernst Bernhard tra Buber e Jung
La spiritualità di Bernhard sembra essere un elemento specifico di divario rispetto ai fondamenti junghiani della psicologia analitica; questa è la tesi del filosofo ed analista junghiano Romano Màdera, che si è occupato della questione, e sulle cui orme tenterò di affrontare un argomento ancora aperto.
E’ necessario prendere l’avvio dalla polemica tra Martin Buber e Carl G. Jung rispetto al rapporto tra psicologia e religione; Buber contestò Jung, “accusandolo” di avere una visione del rapporto essenzialmente gnostico, intendendo per gnosi una categoria umana generale. In forma moderna per gnosi, Buber intende una riduzione dell’alterità di Dio, del Tu divino, alla psicologia. Ne deriva quindi che religiosità e spiritualità sarebbero dimensioni esistenziali unicamente psicologiche, e che “la realtà di Dio” non può essere altra rispetto a ciò che psicologicamente sperimentiamo. Qui nasce una disputa, un contenzioso amplissimo, sui limiti della psicologia e sulle asserzioni che essa può permettersi di fare rispetto alla natura del trascendente; per Buber, Jung ha indebitamente ridotto Dio a contenuto della psiche umana, e asserendo di non volersi occupare di verità, e riportando le sue formulazioni all’empirismo, incappa ugualmente, volente o nolente, in affermazioni sul trascendente.( Pur avendo, Jung, liberato la religiosità da un certo riduzionismo ed anzi riconoscendone l’enorme valenza terapeutica, potenzialmente trasformatrice. Jung inoltre sostenne sempre di essersi attenuto al campo psicologico, senza voler fare alcuna improbabile affermazione sulla fede e su Dio).
Ora, Bernhard sicuramente fu al corrente della polemica tra Buber e Jung, essendo fra l’altro in qualche modo debitore personale ad entrambi.Certamente non poté rimanere estraneo al dibattito.
In Bernhard assistiamo ad un capovolgimento dell’impostazione junghiana: non si tratta quindi di una religiosità psicologica, bensì di una psicologia religiosa, come fa notare Màdera, e “la psiche non è un mondo separato che può solo ipotizzare una esteriorità e una alterità da sé, ma la via regia – il “metodo” nella sua piena parola per incontrare l’altro e il divino, rintracciandone le orme nel più intimo sé.”54 Bernhard non vuole comprendere l’esperienza religiosa nei limiti della psicologia, ma usa l’esperienza della psicologia del profondo per affermare la verità dell’ampliamento della coscienza, insegnata anche dal Buddismo.
Se un accenno di divario viene esplicitato nei confronti di Jung, da parte di Bernhard, esso riguarda la sostanziale estraneità dello psicologo svizzero allo spirito ebraico, in quanto testimone di una cultura protestante. Egli quindi non può attingere all’elemento ebraico del Regno di Dio da compiere in terra, rifacendosi ad un cristianesimo “gnostico-ellenistico” che ha proiettato la realizzazione del Regno di Dio nei Cieli, quindi separando il mondo da Dio, dualisticamente. Per la natura più profonda dell’Ebraismo al contrario la Terra Promessa è da raggiungersi qui, in questo mondo.
Al margine di una copia del testo di Jung Ricordi, sogni, riflessioni, Bernhard annota alcune brevi frasi, tra le quali: “Quanto ho da dire io sul problema ebraico, ma prima che arrivassi a Jung!” e “Io, un ebreo:non può essere che trovare e comprendere Dio!”. Come fa notare Màdera, queste parole suonano quasi come “note di contrappunto”: il Dio di Bernhard è ben altro rispetto all’immagine psichica di Dio di Jung. Opposto al cristianesimo di stampo gnostico-ellenistico, che ha tradito il messaggio più vero e profondo di Cristo, Bernhard contrappone proprio la realizzazione del regno di Dio nella Storia: esso
54 Màdera, R., in AA.vv, 1996.
è l’elemento ebraico veramente efficace ed operante nel Cristianesimo, senza il quale la novella del Cristo rimane incompiuta, delusa.
In Jung quindi il simbolo cristiano non avendo in sé la radice ebraica rimane salvatore dell’interiorità, non messia della terra, e che promette una nuova terra.
Bernhard si discosta da Jung, teso a non dare affermazioni sulla realtà corrispondente alle immagini psichiche, in maniera evidente anche nell’uso del termine “realtà psichica”. Il mondo tridimensionale è per Bernhard contenuto nelle immagini, il cui mondo chiama quarta dimensione (o forma entelechiale del Senso, o nomi di Dio), l’uomo concreto è quindi contenuto nell’Adam Kadmon, quindi in Dio. E qui v’è l’esatto contrario di quanto Buber aveva rimproverato a Jung. Esperienza di accesso alla quarta dimensione del mondo e quindi al mondo delle immagini dell’anima è la via mistica. Il termine realtà psichica serve quindi a Bernhard per sostituire le prove metafisiche dell’esistenza di Dio e per non confinare Dio in una realtà separata dal mondo (trascendenza pura), che è invece all’interno del dispiegarsi di una divina immanenza. Appare qui ancora evidente il senso del destino da attuare contro ogni fatalismo, il principio entelechiale che muove la vita, per Bernhard.
Ho scelto alcuni passi di Bernhard per tentare di chiarire quanto sopra affermato, consapevole che il linguaggio utilizzato rimane nell’alveo dell’interpretazione. In alcuni scritti dell’agosto 194555 Bernhard sostiene: “ L’uomo in fondo è per costituzione un essere tridimensionale. Perciò vede solo tre dimensioni. Se dunque in qualche modo, giunge ad avere un vago rapporto con la realtà quadridimensionale, questa gli appare quasi fosse ‘dietro’ al mondo tridimensionale.
55 Bernhard, E., 1969, pag.96-7.
Nel migliore dei casi arriva a ‘riconoscere’- come mi è avvenuto finora – che sono le immagini che formano la materia, oppure – se osa procedere oltre- che esse la creano (così come Dio ha creato il mondo!). Ma ora si fa chiaro che Dio e il mondo sono realmente una cosa sola e che il ‘mondo’ si vede appunto come terza dimensione quando si fa astrazione dal ‘mondo’ quadridimensionale=Dio=entelechia=mondo delle immagini.
(…) L’uomo, vale a dire l’immagine dell’uomo, il megas anthropos, l’Adam Kadmon, è la quarte dimensione dell’uomo! Così l’uomo è contenuto in Dio. L’esperienza mistica è un’esperienza d’identità con la rispettiva condizione quadridimensionale, con l’immagine. (…) L’esperienza religiosa nel senso più lato ( esperienza del numinoso) è quell’accesso al mondo quadridimensionale che è possibile sperimentare. L’ampliamento della coscienza è la ‘possibilità’ di penetrare in quel mondo.”
2.2 Il mito ebraico. La necessità della conciliazione ebraico- cristiana
Nelle pagine della Mitobiografia, che mantengono sempre a mio avviso, ed è bene ricordarlo, una certa atmosfera di intimo dialogo e riflessione, troviamo in modo preponderante il tema del mito, o meglio del mitologema ebraico, che Bernhard percepiva come vivo ed attivo e nella sua esperienza individuale, e nella vita collettiva del popolo ebraico.
A mo’ di introduzione desidero ricordare che le pagine riguardanti questo tema fondamentale nella vita di Bernhard, così come tante altre, sono cariche di forza e sentimento, di passione e di urgenza di comunicare al mondo, a testimonianza di un vissuto percepito come totalmente singolare, ma carico di una valenza collettiva: è il già citato tema della presa di coscienza, che da individuale deve necessariamente allargarsi al collettivo. C’è da chiedersi se queste pagine non risentano di una certa inflazione, forse di un entusiasmo quasi eccessivo, il sapore delle parole ha, a tratti, toni quasi profetici; è sicuramente giusto ed utile porsi questa questione, ma è altrettanto vero che intuizioni e mondo onirico di Bernhard, con le relative riflessioni, come anche fa notare la Erba-Tissot, sono sicuramente dotate di rarità ed eccezionalità.
2.2.1. La presa di coscienza collettiva
Nel suo nascondiglio romano, mentre ascoltava alla radio un discorso di Hitler, Bernhard riconobbe l’inconsapevole ripetizione di motivi mitologici da parte del Fuehrer. Questo fatto apparentemente di poca importanza, fu in realtà un’intuizione per l’allora ebreo clandestino; egli già sosteneva che la storia dei popoli fosse il compimento dei loro mitologemi, ma in quel momento comprese la necessità di una presa di coscienza del sostrato psicologico-mitologico delle storie dei popoli, cosa che “avrebbe condotto ad una trasparenza dell’attuale situazione sociologica, politica e culturale”.
Per presa di coscienza collettiva Bernhard intende e propone, il prendere in esame una ‘ sfera di civiltà ’, e di considerarla come un singolo individuo, applicandovi, nel suo caso, gli stessi costrutti teorici della psicologia del profondo. Andrebbero quindi applicati gli stessi concetti sia ai fenomeni collettivi dei popoli, sia alla vita dei singoli ( in corrispondenza alla quale più o meno consapevolmente agisce il mito. ) Mitologia di un popolo e struttura archetipica di una civiltà si esprimono concretamente nelle diverse espressioni artistiche, religiose, giuridiche, sociologiche, politiche. “Tale mitologia ha una determinata evoluzione che si può seguire, che il mito stesso manifesta, che si può comprendere dalla esperienza di altre psicologie, e prima di tutto dal singolo, e di cui si può anche vedere la direzione.” Il mito per Bernhard va quindi compreso, chiarito, capendone la struttura e la dinamica e giungendo ad individuare dove e come esso si manifesti nella civiltà presa in considerazione.
Ciò che interessava Bernhard, e che avrebbe tentato di realizzare con la sua automitobiografia era far affiorare il mitologema che sta alla base dei singoli, necessario per la presa di coscienza individuale e collettiva. Quest’ultima andrebbe promossa in modo sistematico in quanto “determinante per il destino
futuro dell’umanità”. Il termine mitologema, pezzo di mito, è per stessa dichiarazione di Bernhard utilizzato in modo vago, da definire, come “denominazione comune di contenuti diversi: componenti della coscienza e dell’inconscio collettivo, motivi di famiglia, di stirpe, di civiltà e razza, cosiddetti elementi karmici, ecc.”56
Egli prese spunto per le sua riflessioni dall’analisi del proprio materiale onirico, nel quale spesso ravvisava un contenuto mitologico. L’analisi dei sogni ed in particolare dei motivi ricorrenti che formano delle strutture ripetute nella vita onirica occupano il ruolo di primo piano per Bernhard nel riconoscere la vitalità del mito, nel suo caso quello ebraico, che egli avvertiva come ad un punto di svolta necessario e fondamentale. L’evoluzione del mito, e conseguentemente del vivere collettivo, necessita di un riconoscimento reciproco fra mondo ebraico e mondo cristiano, entrambi immersi in una crisi profonda ed incompresa. L’integrazione e l’ammissione da parte degli Ebrei dell’ebraicità di Gesù, testimone e chiave di volta dell’evoluzione ebraica, e viceversa il riconoscimento da parte dei Cristiani che l’elemento ebraico ( Terra Promessa da raggiungere nella Storia, creazione del Regno di Dio sulla terra, senza ‘proiezione’nei Cieli) è l’elemento veramente efficace del Cristianesimo.
Secondo l’avviso di Bernhard, i due mondi erano lontani dalla comprensione di essere parti dialettiche di un mito che attendeva un’evoluzione superiore, consistente in una nuova “intesa tra gli Ebrei e Cristo”, rappresentante ebraico più alto dell’amor Dei. La realizzazione del paradiso terrestre unicamente nell’interiorità, ‘endopsichicamente’ con le parole di Bernhard, sarebbe un fraintendimento delle parole di Gesù: “Noi siamo evidentemente entrati in una
56 Ibidem, pag. 190.
nuova fase in cui la realizzazione concreta dell’idea ebraica del regno messianico in terra è divenuta in qualche modo un nuovo problema (…)”57
E’ necessario seguire i passi di Bernhard per capirne le riflessioni; e ciò è possibile prendendo in esame i commenti dello stesso alle sue immagini oniriche, per le quali rimando all’allegato58.
“Non posso fare a meno di essere consapevole che il mito ebraico nella mia psiche è ad una svolta. Lo vedo dai miei sogni, dal mio destino, e io devo recitare la parte che qui ha luogo una trasformazione del mito ebraico, senza attribuirmi la parte.”59 Nel Sogno di Cristo-Pilato e del Philodendron60 Bernhard ritrova l’elemento riconciliatore fra Roma e Gerusalemme, e la revoca della Crocefissione. Nel sogno del Philodendron inoltre egli vede come base archetipa la sua scelta di non emigrare in Israele: il Philodendron è una pianta che deve innescarsi su rami altrui per poter vivere, e Bernhard la utilizza come termine metaforico per indicare un nuovo orizzonte di significato per il popolo ebraico:non si tratta di divenire Israeliani -afferma nella Mitobiografia– bensì di ricordare e riconoscere la vocazione al nomadismo ebraico, atto a spargere l’ amor Dei nel mondo, entrando in contatto amorevole con chi è goim, straniero, non-ebreo: si tratta di una chiamata forte al rinnovamento spirituale ebraico, lontana dal bisogno di istituzionalizzazione (sia religiosa che politica). Qui torniamo a quanto accennato precedentemente, ovvero alla connessione intima fra realizzazione endopsichica e realizzazione sociale, tra individuo e collettivo, dove per l’appunto il paradiso terrestre necessita di compiersi concretamente. E torniamo pure alla presa di coscienza collettiva quale compito imperativo per il
57 Ibidem, pag. 210.
58 Cfr. allegato a pag. 105
59 Bernhard E., 1969, pag. 233.
60 Cfr . allegato a pag. 105
futuro dell’umanità; l’esperienza di Bernhard urge un atto comunicativo ed un incisione nel mondo reale, una mansione da compiere:
“Quando io, affrancato, credetti di comprendere il mio sogno del Philodendron, lo compresi nel senso che il radicare su tronco ‘straniero’, non sul proprio, e la diffusione dell’amore di Dio fossero la sostanza e il significato dell’esistenza ebraica. Pensavo che anche il paese d’Israele- anche se è durato per quasi mille anni –è stato un tronco passeggero, non il proprio, per il Philodendron, -fino a che in Gesù di Nazareth ha prodotto, appunto nel cristianesimo ebraico, quell’ultima foglia di amor Dei che già dopo un secolo fu sopraffatta dall’innesto di rami d’ulivo stranieri. Non potrebbero deserto e terra promessa, penso oggi, essere un solo sistema, come il segno del Tao che contiene lo Yin e lo Yang? E non potrebbe anche tale simbolo che riunisce in sé gli opposti, deserto e terra promessa, rappresentare una problematica e un compito soprattutto interni dell’uomo ebraico ?”.61
Per Bernhard gli Ebrei non avrebbero capito l’urgenza di un passaggio di fase come popolo: “Si identificavano con la vecchia fase morente e non potevano diventare i rappresentanti della nuova essenza, realizzare la nuova fase. Attribuire la colpa a Hitler è fermarsi alla superficie.”62, ovvero non avevano inteso la necessità del rinnovamento, soccombendo. Queste frasi appaiono dure e facilmente fraintendibili, se non fossero state dettate da un ebreo perseguitato, e non è mia intenzione tentarne commenti o interpretazioni; mi pare però evidente
61 Bernhard, E., 1969. pag. 199.
62 Ibidem, pag. 138. E più avanti, a pag. 185, in un passo del 1963: “Chi dette a Pilato (anche a Hitler) il potere, il permesso di uccidere Gesù? Gli Ebrei stessi. Essi devono anche revocarlo! (Per esempio nel mio sogno di Cristo-Pilato). Questo deve avvenire! Gli Ebrei l’hanno fatto, gli Ebrei devono anche disfarlo. Devono riconoscersi in Gesù, mentre invece proiettano su di lui la loro Pseudo-ombra, che era la loro luce. (…) Qui è l’identità del problema tedesco ed ebraico e la base per la reciproca proiezione dell’Ombra. Ambedue sono patriarcali; ambedue hanno gravi complessi d’inferiorità e inflazioni compensatrici. Ambedue hanno paranoicamente proiettato l’uno sull’altro il lupo divoratore e hanno identificato la propria luce col cane degenerato, l’ombra. Ambedue dovrebbero lasciare guarire il mondo ! (…)”.
come la fiducia nel ritrovare un Senso agli accadimenti, anche i più terribili, sia parte dell’atteggiamento esistenziale di Bernhard, lontano dall’identificazione di Dio come Buono, cosa che riteneva infantile: Dio è il Senso, alla cui luce tutto viene redento, al di là del bene e del male, e di ogni moralismo.
E appare necessario, negli scritti di Bernhard, come anche i popoli, nel comprendere il loro mito, facciano i conti e si prendano in carico la propria Ombra.
Il percorso psicologico per Bernhard è un percorso quindi autenticamente religioso (nel senso etimologico di essere in relazione a, che segna l’appartenenza del particolare all’universale dotato di corrispondenze, di armonia, di un ordine “cosmico”), così come il percorso religioso, se profondo, è (anche) un percorso effettivamente psicologico.
Viene di conseguenza spontaneo riportare questa considerazione alla matrice hassidica di Bernhard; “Siate santi, perché Santo sono io, il Signore” è l’esortazione che attraversa il Levitico, e numerosi commentatori si soffermano sulla parola santo, Kadosh, che etimologicamente è affine a distinto, differenziato, diverso: la diversità ( individuazione ) che diviene precetto divino, quindi non solo diritto, ma dovere morale.63 Ed evidenti sono quindi le analogie con il processo individuativo junghiano, analogie che non solo convivono nella figura dell’intellettuale Bernhard, ma che, umanamente, divengono vie da esplorare con decisione.
63 Cfr. Tedeschi, Gianfranco, 2000.
2.2.2. Il sincretismo
Il messaggio di Ernst Bernhard dinnanzi alla crisi moderna (?) è sostanzialmente una proposta di ritorno e riscoperta della dimensione religiosa dell’uomo. Il suo messaggio religioso è in modo specifico di natura sincretica, dove per sincretismo s’intende non certo, quale accezione negativa, un affastellamento confuso e superficiale di tradizioni religiose, bensì come scrive Romano Màdera “quella dimensione mondiale dello spirito universalista che chiama a sé diverse tradizioni e culture, esigendo però una sintesi, volta a volta singolarissima, e cioè biografica. La stessa individualità moderna peraltro, è rimasta solo un principio astratto, giuridico, invalidato, nell’esperienza quotidiana dall’asservimento alla produzione – consumo di cose e all’accumulazione di denaro. All’individuo concreto non corrisponde nessuna realtà individualmente segnata dalla sua singolare capacità di dare e accogliere un senso. Si tratta allora di ripartire dal diventare universale del nostro mondo e della nostra cultura per ripercorrerla in un senso proprio ad ogni individuo, facendo della sua biografia il criterio di selezione, di composizione e di verifica di ogni incontro.”
Profondo studioso dell’ebraismo, del protestantesimo, delle tradizioni orientali e delle pratiche meditative, dell’astrologia e della chirologia, attento all’esplorazione di diverse potenzialità psicofisiche, il medico religioso Bernhard ritrova in antichi -quanto diversi -campi del sapere e della cultura motivi ricorrenti, che riscattino l’individuo dall’anomia, restituendogli la ricerca di un Senso.
“ La mia evoluzione sfocia qui- afferma Bernhard in un commento ad un sogno- in una sintesi di ebraismo e protestantesimo, di Chiesa cattolica e
ortodossa, e delle religioni dell’Estremo Oriente. Questo processo, che ha luogo nella mia psiche, è allo stesso tempo il processo di evoluzione dell’umanità.”64
Credo, secondo il mio modo d’intendere, che Bernhard intuisse le profonde relazioni che legano tutti gli insegnamenti delle grandi religioni e di alcune filosofie orientali, al di là del credo particolare e di qualsiasi forma dogmatica, mantenendo in costante sottofondo il concetto di entelechia, mutuato dal biologo Hans Driesch.
Egli, che “si sentiva guidato da un Dio che sa, un Dio d’amore, e si abbandonava a lui con fede assoluta”65 non professò un credo religioso specifico, abbracciando una via religiosa che prendendo linfa dalla radice ebraica, attraverso lo studio dell’insegnamento di Buddha e dei testi taoisti, oltre che di alcune dottrine yogi e induiste, giunse alla meditazione della figura di Gesù Cristo ed alla contemplazione della Sacra Sindone, in una sintesi propria e singolare. L’incontro con la psicologia analitica ed in particolare con il processo d’individuazione non fecero altro che confermare lo sviluppo armonico della sua spiritualità, chiave di volta e di liberazione del disagio esistenziale collettivo.
Non è intenzione di questo lavoro affrontare approfonditamente le numerose fonti di riflessione, filosofiche, teologiche e mistiche, presenti nel pensiero di Bernhard, o meglio negli scritti non sistematici che ci ha lasciato, ma è mia intenzione dedicare solo alcune righe-tralasciando il resto- a due importanti argomenti: il taoismo e la figura di Gesù.
64 Bernhard, E., 1969.
65 Erba-Tissot, Hélène, in Bernhard E., 1969.
2.2.3 Il Taoismo
Ernst Bernhard fu un attento estimatore della scuola di saggezza taoista. Certamente, sulla scia di Jung e delle sue opere, l’ammirazione e lo studio dei testi della saggezza orientale occuparono ed interessarono numerose schiere di intellettuali appartenenti a quella generazione, e lo stesso Bernhard forse subì come tanti altri il fascino di un dialogo profondo tra Oriente e Occidente (e tra “filosofie” orientali e psicologia analitica).
E’ utile ricordare che Bernhard fu un assiduo frequentatore di Eranos, la straordinaria esperienza culturale che vedeva annualmente radunarsi nei pressi di Ascona studiosi e intellettuali di fama internazionale provenienti da ogni parte del mondo, in un entusiasta ed armonico avvicinamento tra saperi e culture occidentali e orientali.
Tra biologi statunitensi, mistici iraniani, indologi italiani, psicologi svizzeri, medici tedeschi e cinesi, si avvicendarono ad Eranos anche importanti sinologi, fra i quali Richard Wilhelm. E’ probabile quindi che ciò, oltre alla già menzionata amicizia con Giuseppe Tucci, rafforzò ed accrebbe lo studio e la meditazione del taoismo da parte di Bernhard.
Il taoismo è una scuola di saggezza (non è una filosofia nel senso occidentale), che ha a cuore la Via (Tao) della liberazione del Sé e dell’adeguamento dell’Io alla natura originaria, spontanea della personalità, ovvero di realizzare la completezza della propria intima identità, lontano da un adattamento passivo a valori esterni, sociali, collettivi.66
Si tratta qui, come nei riferimenti che Bernhard fa al Tao, di quello che i sinologi definiscono taoismo filosofico (per distinguerlo da quello religioso, di
66 I termini utilizzati sono da ascriversi al significato specifico che essi assumono all’interno del linguaggio della psicologia analitica.
epoca successiva e diversa natura), vale a dire il pensiero dei padri fondatori, come Lao Tzu e Chuang tzi. Il testo principale di riferimento è il Tao te ching (Libro del Tao e della Virtù).
Il termine Tao (Via) assume innumerevoli significati nel pensiero cinese ed in Occidente è stato tradotto di volta in volta con Logos, Principio supremo, Suprema ragione, Senso, Dio, etc.
Ma nel pensiero taoista in verità il Tao è essenzialmente indefinibile: “Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao” scrive Lao Tzu. Attributo in massima parte specifico del Tao è il Wu Wei, il non agire, la quiescenza, il lasciarsi condurre dalle qualità naturali, innate, non dalla volontà cosciente razionale: da qui scaturisce, quasi paradossalmente, l’azione di successo, che ha eliminato il fine, l’obiettivo da raggiungere. Il Taoismo è di conseguenza una via essenzialmente mistica, che prende vita da sé, con l’abbandono dell’intellettualismo, del razionalismo, e dello sforzo del pensiero, cosa che deve aver incontrato il favore di Bernhard, per il suo temperamento intuitivo. E’ in sostanza l’atteggiamento di fiducioso abbandono (proprio, a mio parere, di ogni via mistica di qualsivoglia religione) che Bernhard ritrovò espresso in maniera mirabile nel testo di padre De Caussade, L’abbandono alla provvidenza divina, di grossa popolarità nella Francia ottocentesca, edito in Italia proprio grazie a Bernhard e molto diffuso tuttora.
Gianfranco Tedeschi, allievo di Bernhard che ha in qualche modo ereditato l’interesse dell’analista per il fenomeno religioso, scrive riprendendo il grande orientalista Giuseppe Tucci, a proposito del taoismo: “La ricetta dell’esistenza è dunque che ‘l’uomo si adoperi ed agisca così come è chiamato ad agire ed operare secondo le sue inclinazioni e i suoi impulsi naturali, senza quel vano affaticarsi, quella sregolata attività, quegli infiniti artifici che quotidianamente osserviamo nella vita, che vincolano l’uomo e che gli impediscono di conseguire
quella beatitudine d’indifferenza che fu lo stato naturale dell’umanità prima che le istituzioni sociali lo corrompessero ’ (Tucci)”67.
Tedeschi ha inoltre portato ad approfondimento, certamente non l’unico in Italia, il rapporto tra psicologia analitica e saggezza cinese ed ebraica, indubbiamente, vorrei dire, sulle tracce di Bernhard. Rispetto a quel “vivere nel Tao” che Bernhard riconosceva anche come risoluzione della nevrosi, Tedeschi scrive: “Pochi giorni prima della sua morte chiesi a Bernhard quale fosse il segreto della vita, ed egli mi rispose:l’abbandono alla Provvidenza divina, non c’è altro che l’abbandono alla Provvidenza divina, equivalente giudeo-cristiano del Tao.”68
2.2.4 La figura di Gesù
La figura di Gesù compare costantemente nella vita di Ernst Bernhard: nello studio, nell’interrogazione interiore, nei sogni, nei miti. Storicamente, Bernhard afferma di essersi posto il “problema” di Gesù, grazie all’incontro con Martin Buber e con le sue opere. Anni dopo, durante il nascondimento romano in attesa della fine delle ostilità belliche, Bernhard studiò la critica biblica protestante, e si soffermò, negli ultimi periodi della sua vita, sul Gesù di Rudolf Bultmann, il noto teologo ed esegeta tedesco.
E’ stato già accennato precedentemente alla considerazione di Gesù quale rabbi ebreo, quale portatore in sé di un’ebraicità rigogliosa e piena, che il popolo ebraico, a parere di Bernhard, dovrebbe accettare ed integrare. Non desidero quindi sostare ulteriormente su questo aspetto, bensì tentare di fornire alcuni
67 Tedeschi, Gianfranco, 2000, pag. 23.
68 Ibidem, pag. 54.
spunti per cogliere il significato esistenziale che Gesù ebbe per Bernhard: si tratta di personali considerazioni, che non hanno pretese esaustive o esplicative.
Lo stile, per forza di cose, diaristico, allusivo e “segreto” della Mitobiografia non permette dichiarazioni e soluzioni nette. Basti pensare, a proposito della figura di Gesù, a questo commento di un’immaginazione attiva: “Gli Ismaeliti sono gli Arabi nomadi. Mitologicamente mi identifico con Ismaele, un ribelle, non con il buon Isacco. (…). Questo è il mio rapporto con il mondo arabo, col deserto. E per me Gesù di Nazareth era un beduino, ne sono quasi certo”69 in cui torna, forse?, il mitologema del nomadismo, della diffusione dell’amor Dei sulla terra.
Gesù inoltre compare nella vita di Bernhard nell’immagine della Sacra Sindone; nel 1935 egli portò in una seduta analitica con Jung un sogno, nel quale questi sedeva nel suo studio dinnanzi ad un parafuoco di pergamena chiara, “per attingere mana, come un primitivo, uno stregone, ‘da un sacro angolo di forza ’”. Sin qui l’immagine onirica, a cui segue il commento dettato nel 1965: “Quando raccontai il sogno a Jung, egli mi pregò di mostrargli l’angolo in cui egli sedeva nel sogno. Mi condusse dove gli avevo indicato, accese una lampadina dietro uno schermo e tirò una piccola tenda. Per la prima volta vidi così una diapositiva della Sindone di Torino. Jung mi disse: ‘Lei è veramente un intuitivo. Da questo angolo attingo la mia forza, questa è la mia sorgente.’”70
Successivamente Bernhard si fece fare una copia dell’immagine della Sindone71, di cui non dubitava l’autenticità secondo alcuni allievi, e la appese nel suo studio, sopra il mandala da lui dipinto. Forse è possibile asserire che per
69 Bernhard, E., 1969, pag. 11.
70 Ibidem, pagg. 11-12.
71 “ A proposito della Sindone torinese: ieri pomeriggio mi è sembrato di comprendere Gesù in un modo tutto nuovo, umanissimo. Mentre infatti contemplavo la nuova immagine dell’impronta del suo corpo (Santa Sindone ) che mi sono fatto fare (…), mi è venuto incontro così schietto, scoperto e naturale che l’ho riconosciuto con assoluta evidenza. Ecce homo!”ibidem, pag. 193
Bernhard Gesù fosse il nucleo ed il centro sia di meditazioni a carattere filosofico
– religioso, sia modello psicologico per il singolo così come per il collettivo. Egli infatti rappresenta l’uomo liberato, in cui dimensione concreta e spirituale si armonizzano, la cui croce di sofferenza, accettata (così come l’Ombra nel processo d’individuazione, la nigredo nella via alchemica, etc.), non allontanata, diviene necessaria alla fase successiva, superiore, che è l’esperienza della totalità e della trasformazione ( ma qui su questa terra aggiungerebbe Bernhard. ) Gesù inoltre è l’espressione di un ethos individuale rispetto ad una morale collettiva: egli sostanzialmente si pone dinnanzi alla Legge istituzionalizzata, non rispettandola aprioristicamente ed in forma esteriore e formale, bensì incarnandola nel vissuto quotidiano, obbedendo alla realizzazione del suo compito, non a quello imposto dalla collettività. Questo fu un tema caro a Bernhard, costante nelle sue formulazioni psicologiche (individuazione) ed in quelle filosofiche (entelechia).
Negli ultimi giorni della sua vita la tematica di Gesù si riafferma nuovamente come testimoniano le ultime pagine della Mitobiografia.
A conclusione di questo capitolo, ho deciso di porre due “immagini”, due rappresentazioni “fotografiche” della religiosità di Bernhard, che mi sembrano cogliere e riassumere aspetti che personalmente ho udito descrivere anche durante le interviste svolte ad allievi e pazienti.
La prima è di Hélène Erba Tissot, e si trova nell’Introduzione alla Mitobiografia:
“Nella grande stanza da lavoro, nello spazio lasciato libero dai libri sopra il divano-letto, un quadro attirava l’attenzione, una composizione singolare, una immaginazione attiva realizzata da Bernhard con le proprie mani : due mandala concentrici. Sul cerchio esterno i segni dello Zodiaco, con l’Ascendente in
Sagittario, corrispondente all’oroscopo di Bernhard. All’interno di questo cerchio una croce a bracci uguali, di legno, e al centro di essa un secondo medaglione circondato dall’uroboros, il serpente che si morde la coda. Il medaglione centrale contiene l’essenza dell’immaginazione attiva, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco e di quello ebraico, in modo che lette cominciando dal Taw ebraico, in ambedue i sensi si forma la parola “Tao”. Sul braccio verticale della croce, sopra il medaglione interno, la colomba. Questo mandala ricopre una fotografia molto buona del Volto della Santa Sindone. In questa sintesi d’Oriente e d’Occidente, con la dominante ebraico-cristiana, si muove il pensiero religioso di Bernhard, dialogo interiore incessante e di ispirazione nel dialogo col mondo.”72
La seconda invece, apparsa sul Corriere della Sera del 6 novembre 1969, è estratta da un articolo di Elèmire Zolla:
“ Religioso era Bernhard, ma di quale religione istituita sarebbe difficile dire. Era ebreo, ma di tradizione chassidica. Ma era anche cristiano, sia pure molto eterodosso, e preferiva, ai mezzi meccanici e farmaceutici, mettere fra le mani degli smarriti il sublime trattato di Pierre de Caussade “L’abbandono alla divina Provvidenza” che egli ebbe il merito di divulgare. Ma era forse più buddista. O, ancor più, taoista. E se si conclude che dunque era sincretista, bisognerebbe ben togliere al termine la sua accezione deleteria, dal momento che la sua fede dava un vivo conforto, gli faceva indovinare e curare, facoltà che non nascono dall’ibridazione e dalla confusioni: soltanto una vera casa armoniosa accoglie e pacifica, non certo un emporio di antiquariato.”
72 Erba-Tissot, Hélène, 1969, pag.42-43.
Capitolo terzo Sulla psicoterapia
Introduzione
Ernst Bernhard si avvicinò alla psicologia ed alla psicoterapia a Berlino, mentre svolgeva la propria professione di pediatra, probabilmente sospinto da interessi precedenti, anteriori, forse in fermento da tempo.
Lette tutte le opere di Freud, scelse di intraprendere un’analisi con Sandor Rado, proseguendo successivamente con Otto Fenichel , con il quale interruppe il rapporto analitico nel 1932. L’anno in cui conobbe Julius Spier , il chirologo da cui “apprese” la lettura della mano; questa pratica, che come si vedrà era da Bernhard sperimentata e studiata, gli offrì una sorta di paragone empirico della dicotomia individuale/collettivo (entelechia individuale / entelechia karmica, collettiva), uno dei nuclei cardine del suo modo di intendere la psicoterapia e la psicologia del profondo. Come mi ha suggerito Luciana Marinangeli, che fu in contatto con Ernst e Dora Bernhard, è necessario ricordare che tali pratiche non erano a quel tempo considerate totalmente “esoteriche”, bensì in qualche modo oggetto di studio scientifico: nella Germania degli anni ’20 e ’30 la “scienza fisiognomica” era tenuta in grande riguardo anche negli ambienti medici, e la chirologia forse assunse un valore diverso da quello che oggi potrebbe ricevere in sorte. Inoltre essa era in qualche maniera di moda, all’interno certo di alcune cerchie ristrette di intellettuali. Questo per dire che il clima dei tempi era piuttosto favorevole ad un’apertura di studio e di conoscenza di certe pratiche.
L’incontro con le opere di Jung fu sicuramente toccante per Bernhard, il quale ancora prima di aver approfondito i concetti fondamentali del pensiero junghiano, si occupava del senso della vita intesa come destino da attuare consapevolmente, della meta dell’esistenza come realizzazione della propria specifica “vicenda biografica”, grazie allo sviluppo della conoscenza di sé e del proprio caratteristico potenziale. Riflessioni che lo accompagnarono per tutta la vita, i cui temi verranno sviluppati grazie al pensiero junghiano ed al concetto di entelechia del biologo vitalista Hans Driesch, oltre che allo studio delle religioni e dell’astrologia.
In un discorso commemorativo del 1961 per la morte di Jung, Bernhard scrisse:
“Il primo libro di Jung che lessi, lo trovai, appena terminata la mia esperienza freudiana, su un carrettino a Berlino nell’autunno del ’31. Era ‘Il mistero del fiore d’oro’, in cui Jung scrisse la famosa introduzione psicologica per la traduzione fatta da Richard Wilhelm, di un testo yoga buddistico cinese. Appena aperto tale libro il mio interesse fu risvegliato da certi passi degli ultimi capitoli, che a mio parere sono tra le cose più essenziali che Jung abbia scritto, e che da trent’anni hanno conservato un’importanza centrale per il mio indirizzo e sviluppo individuale. Si tratta dello stato di ‘compimento’ come meta della presa di coscienza, nello yoga così come nella psicologia junghiana.”73
Del rapporto per così dire “biografico” con Jung si è già parlato (cfr. Cap.1); per quanto riguarda il debito teorico, esso è indiscusso. Ma l’ “adesione” alla “teoria” psicologica junghiana, non offuscò affatto lo studio del pensiero freudiano, né tanto meno ostacolò il dialogo con pensatori freudiani.
73 Bernhard, E., Discorso commemorativo per la morte di Jung, Minerva Medicopsicologica n.2, 1961. Cit.in Sorge, G., a c. di, 2001.
Prima di lavorare con Jung e la Wolff, seppure per breve tempo come si è dato modo di vedere, Bernhard svolse un’analisi con le junghiane Toni Sussman e Kathe Buegler, ambedue berlinesi.
Giunto a Roma nel 1935, Bernhard fu “accolto” dall’illustre psicanalista triestino Edoardo Weiss, considerato storicamente come il primo psicoanalista italiano, allievo di Paul Federn. Entrambi medici votati alla psicoterapia ed entrambi ebrei, fra i due nacque un sodalizio umano e professionale. Fu sicuramente grazie a questa amicizia, che Bernhard poté conoscere il primo nucleo freudiano italiano, all’interno del quale l’allievo di Jung non venne certo considerato un cugino apostata, bensì uno stimato studioso.
Prova ne sia che Bernhard, entrato nel comitato di redazione della rivista Psiche di Nicola Perrotti, fu invitato da Weiss al Congresso della Società Psicoanalitica Italiana del 1937 a Roma, dove tenne quattro conferenze sul sogno da un punto di vista junghiano ( pubblicate per la prima volta nel 1971 sulla Rivista di Psicologia analitica e riproposte dalla stessa nel numero monografico per l’anniversario della nascita di Ernst Bernhard nel 1996.) Fu in quell’occasione che espresse la sua serena disposizione ad un dialogo culturale fra i due orientamenti, al di là delle inevitabili ed insormontabili differenze ovviamente presenti:
“L’essere passato attraverso la scuola freudiana prima e attraverso quella junghiana poi ha fatto sì che forse più di molti altri psicoanalisti mi sia posto il problema del vicendevole completamento dei due indirizzi : reputo sia mio compito personale tentare un’integrazione reciproca fra queste due concezioni della psicologia del profondo. Mi sono sempre rammaricato, e direi anche vergognato, dell’assurda barriera sorta fra le due schiere di psicologi, la quale, scindendo l’indagine in due campi, ha reso impossibile uno scambio di idee in forma accademica spregiudicata e naturale. (…) Voglio sperare che in un
prossimo avvenire il fatto che ciascuno sia formalmente iscritto a questa o a quella organizzazione abbia un’importanza sempre minore, e che infine tutti s’incontrino in una comunità di psicologia scientifica.”74
Weiss inoltre richiese più di una volta una consulenza psicologica a Bernhard, così come Claudio Modigliani che lo ricorda così:
“Bernhard mi onorò per vent’anni della sua amicizia che fu per me il più prezioso fra i molti doni che ebbi dalla vita; mi mise in contatto con il mio inconscio e con quello altrui, mi insegnò ad utilizzare di più e meglio, elementi dei sogni manifesti e contenuti del preconscio subliminale, mi aiutò ad accettare le sofferenze che mi derivavano dal praticare psicoterapia di psicotici, mi insegnò a digiunare senza paure irrazionali, a distruggere pregiudizi miei e altrui, a intravedere la verità e la labilità di molte verità psicologiche, a trarre lumi dalle catastrofi, apprendimento dagli errori, fiducia dall’intelligenza. Bernhard era uno spirito religioso, ma di una religiosità eclettica e filtrata da un senso umano fuori del comune. Il ricordo di lui mi accompagna come una benedizione.”75
Bernhard iniziò l’attività psicoterapeutica ( aveva già scelto anni prima di abbandonare la pediatria ) dapprima con pazienti di lingua tedesca, in attesa di perfezionare il suo italiano. Come ricorda Bianca Garufi i tempi non erano facili: la Guerra aveva messo in ginocchio la popolazione, la situazione sociale ed economica del Dopoguerra era disastrosa; situazione difficile anche per i coniugi Bernhard, se teniamo inoltre conto che Ernst subì quasi un anno di internamento, e successivamente si nascose per un altro anno in via Gregoriana, da dove praticamente non uscì mai.
La rete di rapporti, proprio all’interno dell’entourage di intellettuali freudiani fu fondamentale per Bernhard, sia per l’aspetto umano e relazionale, che
74 Bernhard, E., Introduzione allo studio del sogno, in Aa.vv., 1996.
75 Modigliani, C., in Carotenuto A., 1977.
immagino non essere stato semplice posta la sua condizione di straniero che aveva dovuto scegliere l’esilio, sia dal punto di vista professionale. Furono difatti proprio Weiss, Musatti, Modigliani, ad inviargli i primi pazienti; di qui si diffuse lentamente la piccola grande fama del “dottor Bernhard”, che fu avvicinato dapprincipio da personaggi del calibro di Adriano Olivetti e Roberto Bazlen; costoro naturalmente ebbero un peso ed un’influenza notevoli nell’ampliare quello che divenne un andirivieni costante di pazienti, allievi, conoscenti, al civico 12 di via Gregoriana.
Anni più tardi, nell’agosto 1958 Bernhard si recò al Primo Congresso Internazionale di Psicologia Analitica con un piccolo gruppo di allievi, e fu nominato membro del primo Comitato esecutivo della IAAP ( International Association for Analitical Psychology ).76 Tre anni dopo nacque l’Associazione italiana per lo studio della psicologia analitica, presieduta da Bernhard sino alla sua scomparsa, nel 1965.
Scrivere di Bernhard e dell’arte psicoterapeutica, perché come arte egli la intendeva, risulta affatto semplice per chi, ovviamente come il sottoscritto, non ha avuto la possibilità di conoscerlo personalmente. I pochi scritti pubblicati, e che ancora non erano definitivamente “pronti” per una loro divulgazione, non mi agevolano certo il compito. Essa è una questione, si badi bene, centrale e di rilievo. Il compito infatti richiede un rischio: quello di dare vita ad interpretazioni, che per quanto utili, efficaci o suggestive, rischiano di falsificare l’operato ed il pensiero di Ernst Bernhard. Mi soccorrono in qualche modo le narrazioni dei suoi allievi, pazienti e conoscenti, grazie alle quali tenterò di far emergere i nuclei essenziali della pratica psicoterapeutica di Bernhard, prendendo comunque sempre spunto dalle riflessioni contenute nella Mitobiografia.
76 Cfr. Sorge G., a c. di , 2001, pag.8.
Psicologia ed esperienza religiosa sono in Bernhard affini, a volte interdipendenti direi, conducono entrambe ad un’esperienza sacra, non necessariamente confessionale, che faccia comunque percepire al soggetto la sua appartenenza-unica ed irripetibile- ad un Senso più ampio del suo limite biografico.
Detto questo, si intende come sia fuorviante scindere nettamente visione psicologica e visione religiosa di Bernhard, che si intersecano in quella che è prima di tutto ed essenzialmente una ricerca umana, esistenziale. La sua Weltanschauung comporta naturalmente un riflesso nella teoria e nella pratica psicoterapeutica.
Il concetto cardine di entelechia è a mio avviso un esempio di quanto sopra scritto, in quanto esso abita, e ne è parte integrante ed essenziale, tutto il pensiero di Bernhard: il paragrafo seguente si sarebbe potuto inserire in qualsiasi capitolo di questo lavoro.
3.1. Entelechia ed ethos individuale
I primi pensieri sistematici di Ernst Bernhard sull’entelechia datano gennaio 1943. Hélène Erba-Tissot, curandone gli scritti, riporta delle annotazioni presenti in alcuni appunti:
“Hans Driesch, in Die philosophie des Organischen (4a ed.,1928), mostra come la biologia non sia fisica e chimica applicate, come cioè, per quanto obbedisca anche a leggi meccaniche, non obbedisca soltanto a esse, ma sia una scienza fondamentale e indipendente; egli dimostra l’autonomia dei fenomeni della vita. Il principio indipendente, totale, che sta al disopra della causalità meccanica e transeunte, Driesch, riallacciandosi ad Aristotele, lo chiama entelechia: ‘Vogliamo dunque prendere da Aristotele la nostra terminologia e chiamare entelechia quel fattore nell’ambito della vita di cui abbiamo dimostrato l’autonomia, senza con ciò identificare la nostra dottrina con quella che in Aristotele si articola intorno al nome entelechia…Il suo nome deve essere per noi solo una forma che noi abbiamo empito e riempiremo di nuovo contenuto. L’etimo della parola ci permette tale libertà, poiché infatti noi abbiamo dimostrato che nei fenomeni della vita opera qualcosa che porta in sé la meta.’”77 Il concetto di entelechia (dal greco enthélekheia, estratto di en télei ékhein, “essere attivo in pieno”) viene definito in Driesch come un principio di vita irriducibile alla materia, perno per sostenere che mentre il mondo inorganico è caratterizzato dall’ordine, lo sviluppo organico è determinato dall’entelechia intesa come fattore naturale, finalistico-antropologico, che trascende i singoli
individui.
77 Bernhard, E., 1969.
Non è intenzione di questo lavoro prendere in esame le meditazioni di Bernhard che abbracciano la natura e l’evoluzione del cosmo (per le quali rimando alla lettura delle relative pagine della Mitobiografia); per quanto invece concerne il modo d’intendersi della vita psichica e del lavoro psicologico bernhardiano, esso è un concetto di base.
Il tema essenziale di fondo è il confronto fra entelechia individuale ed entelechia karmica. La prima corrisponde alla tendenza all’individuazione ed è il manifestarsi di un’entelechia universale nella vita del singolo. Essa è la spinta creativa a realizzare la propria “peculiarità” come la definisce Bernhard, è sia un piano del divenire, che l’energia che lo anima. Concependo l’entelechia come istanza sovra-personale, ne deriva che non esiste una libertà personale propriamente detta, ma essa consiste nel seguire la tendenza entelechiale: essa è l’unica libertà (“libertà entro una amorosa necessità” scrive Bernhard citando Nietzsche). L’entelechia individuale agisce come dovere morale, ma è l’unico dovere che conduca allo sviluppo di sé e del proprio potenziale, all’espressione globale, alla realizzazione e all’individuazione, che sono il fine.
L’entelechia karmica viene definita come l’insieme di passato familiare, di immagini archetipiche, di valori genitoriali e socio-familiari: è l’eredità da elaborare, per riuscire a dare vita alla propria personale realizzazione.
Il confronto fra le due entelechie “è il punto di vista più importante” ed ha per scena la vita del singolo. “Il fine specifico dell’uomo è la presa di coscienza sino a divenire coscientemente ciò che egli è inconsciamente: l’uomo totale” scrive Erba-Tissot commentando gli scritti di Bernhard, e ciò significa “individuarsi” grazie ad un’ etica personale interiorizzata.
“In quanto siamo individui abbiamo una tendenza all’individuazione condizionata dall’entelechia. A essa corrisponde l’ethos della propria realizzazione (Ombra: egoismo). In quanto per il nostro karma e la totalità del
nostro passato partecipiamo alla collettività, abbiamo l’ethos dell’inserimento, della comunità, degli obblighi sociali, del conservatorismo, del mantenimento della specie e via dicendo (Ombra: gregge; Nietzsche). L’una cosa è costruita sulla contrapposizione e sulla peculiarità, l’altra sulla comunanza e l’uguaglianza.”78 La contrapposizione fra le due entelechie opera in ogni individuo, in gradi di diversi di consapevolezza. Esserne coscienti significa prendere coscienza della propria irripetibile esistenza, riconoscere il proprio compito distintivo:
“A tale peculiarità è legato il compito della vita. E’ il compito che l’uomo ha ricevuto e che egli ha da porre sopra tutto il resto, sia ai fini della realizzazione di tale peculiarità, sia per affermarla contro tutto il resto (l’eredità collettiva). Questo conflitto tra peculiarità ed eredità è il vero e proprio contenuto della vita. Tutta la problematica si può ridurre a questo denominatore comune.”79
Le riflessioni riguardanti il destino individuale ed il destino karmico, e conseguentemente quelle sull’entelechia, presero forma in Bernhard in modo specifico grazie all’incontro con Spier e la chirologia; di qui sorse la rappresentazione dell’emancipazione dell’individuo rispetto al collettivo, tema che troverà rielaborazione e “conferma” nelle teorie junghiane del processo d’individuazione. Per la chirologia infatti vi è un piano di sviluppo individuale (che empiricamente troverebbe manifestazione nella mano sinistra e nella disposizione delle sue linee) ed un’eredità collettivo-familiare (mano destra).
L’approfondimento e l’adesione alla psicologia analitica furono poi il terreno fertile per lo sviluppo di una concezione entelechiale della vita, che divenne l’asse portante della psicologia di Bernhard:
78 Ibidem, pag.24.
79 Ibidem, pag.31.
“14 ottobre 1945. Tra i miei pazienti incontro molto spesso certuni con una linea di destino ‘individuale’ della mano ed eventualmente anche con una ‘linea di tradizione’. Naturalmente hanno un problema di genitori, che significa lotta e distacco per la realizzazione dell’individualità. Di ciò ho fatto la mia psicologia e la mia visione del mondo. Del resto anche Jung ha lo stesso aspetto chirologico!”80
Mi pare degno di nota rammentare che Bernhard, pressoché senza conoscere l’opera di Jung, (egli direbbe “sincronicamente”) giunse fondamentalmente allo stesso punto d’ approdo (processo d’individuazione), muovendosi dalle concezioni su cui si basava una pratica, come quella chirologica, totalmente altra rispetto all’analisi.
Mirabile sunto di questa visione teleologica dell’esistenza e della vita psichica, e del parallelismo fra entelechia e individuazione, è l’abbozzo di introduzione all’Abbandono alla Provvidenza Divina scritta da Bernhard verosimilmente nel 1950 e pubblicata in Mitobiografia.81 In essa Bernhard esplica l’entelechia come piano tendenziale di vita preesistente nell’inconscio, sia collettivo che individuale, ovvero come principio di vita finalistico presente nel corso della storia umana e del singolo. L’essere umano, contraddistinto dalla tendenza all’individuazione, ha nel corso delle fasi storiche delle diverse civiltà formulato questo processo in sistemi religiosi e vie di saggezza e Jung ne avrebbe carpito, secondo Bernhard, il senso psicologico.82 Meta del processo d’individuazione, quindi dell’entelechia individuale, è la “totalità individuale”, consistente “nell’accettazione e nella realizzazione di tutti gli elementi e di tutti gli strati che si trovano in noi-siano alti o bassi- e nel loro ordinamento
80 Ibidem, pag.104.
81 Ibidem, pag.149-152.
82 Utilizzando i costrutti ipotetici della psicologia analitica, si tratta qui, schematicamente e semplicisticamente, della relativizzazione dell’Io in favore del Sé.
armonioso intorno a un centro, il Sé.” Essa è una meta ideale, in aperta opposizione con quello che Freud denominò Super-Io, “espressione di un ethos generale e collettivo, che, in contrasto con la struttura individuale del singolo, lo costringe, sopprimendo qualsiasi elemento divergente, a riconoscere il suo contenuto senza avere riguardo alla propria totalità e particolarità psichica.”
L’ethos individuale così raggiunto non è individualistico, anzi implica l’inserimento del singolo soggetto nella collettività, senza però alcuna identificazione, bensì mantenendo la propria differenziazione. Esso è una presa di responsabilità individuale, che si conforma a contenuti che assolvano allo sviluppo dell’individualità. “L’ethos individuale è ethos; non è dunque amorale, immorale o arbitrario. (…) La morale individuale nasce nei momenti in cui sorge un conflitto tra doveri interiori e doveri esteriori, quando cioè non è possibile giudicare secondo schemi, ma seguendo criteri puramente individuali. Viene per così dire a costellarsi una situazione complessa e unica, d’una singolarità a cui nessuna soluzione generale può corrispondere. (…) Così l’ethos individuale entra necessariamente in conflitto con le concezioni che siano svuotate del loro contenuto etico (…); il vero peccato consisterebbe nel rimanere in un ethos collettivo ormai superato.”83 La formazione dell’ethos individuale assume inoltre diversi contenuti nelle diverse fasi del ciclo di ogni vita, scontrandosi con problemi e scelte che necessariamente comportano una decisione fra morale collettiva ed etica individuale, oppure con scelte etiche del passato divenute inadeguate: “Sembra proprio che nei momenti decisivi del suo destino l’uomo venga regolarmente esposto a un conflitto morale, affinché egli, opponendosi a una posizione etica precedente, passi a un ethos individuale. Non sono pochi coloro che per tutta la vita rimangono presi nelle maglie di un tale conflitto.”84
83 Ibidem, pag. 152.
84 Ibidem.
Facilmente si immagini la risonanza che una tale concezione poté avere nella pratica psicoterapeutica di Bernhard; nulla veniva dato per scontato, l’unico “a priori” era il riconoscere l’importanza della scoperta della propria individuazione, abolendo parametri sociali o strettamente nosografici che imponessero una verità certa, una normalità convenzionale o statistica; non v’era alcun metodo nomotetico da seguire.
A tal proposito Mario Trevi, analista junghiano considerato l’artefice dell’introduzione in psicologia della prospettiva ermeneutica85, scrive in un breve ricordo di Ernst Bernhard, suo primo analista: “ La fede goethiana nella singolarità inconfrontabile di ogni esistenza si caricava in Bernhard di accenti luriani. Condannato a vivere, c’era per l’uomo un unico riscatto possibile: rintracciare nella propria individualità il calco precedente alla caduta, l’assolutezza della forma precosmica, la giustificazione connessa indissolubilmente alla creaturalità. Ma anche questi punti di fuga religiosi-pur così attivi nella consegna al compito personale dell’individuazione-erano proposti da Bernhard con umanissimo accento pragmatistico: erano altrettanti “come se” deputati a sostituire ogni inverificabile certezza. Non conosciamo la verità, soleva ripetere ai più inquieti dei suoi allievi, ma solo il tenue modello reticolare e commutabile con cui di volta in volta ci illudiamo di imbrigliare la verità.”86
3.2. Seelsorge
Se una caratteristica salta subito all’occhio svolgendo ricerche su Ernst Bernhard, essa è indubbiamente la libertà d’azione propria del suo modo di lavorare in ambito psicoterapeutico. Il suo modus operandi, slegato dall’ortodossia tecnica (e forse qualcuno, sbadatamente, sosterrebbe anche teorica), è il tratto che lo contraddistingue anche alla vista dei “non addetti ai lavori”.
Alla fine degli anni Trenta e Quaranta l’analisi in Italia era pressoché sconosciuta; apparteneva all’avanguardia di sparute elite entrate in contatto con il mondo mitteleuropeo, ed attraeva, posso dire quasi esclusivamente, in quanto disciplina innovativa, colti intellettuali, donne e uomini di cultura.
Ma se la psicoanalisi di Freud, pur restando un’assoluta novità, aveva già i primi attivi “seguaci”, ed i primi analisti italiani formati, la psicologia analitica di Jung in Italia era totalmente ignota; solo alcuni brevi articoli apparsi su riviste specializzate fecero il nome di Jung, per lo più travisandone completamente il pensiero con recensioni frammentarie, e suscitando spesso un coro di critiche nei confronti della psicologia junghiana ( coro per altro trasversale, comprendente gli ambienti scientifici, medici, ecclesiastici, marxisti).87
E’ in questo clima che si situa la nascita e l’inizio del metodo junghiano in Italia ad opera di Ernst Bernhard e dei “pionieri” che lo avvicinarono.
Se egli viene, a tutt’oggi, considerato per certi versi “colpevolmente” eterodosso e quasi esageratamente libero nella prassi analitica88, all’epoca rappresentò una nota dissonante e totalmente altra, divergente e rivoluzionaria, se
87 Cfr. Carotenuto, A. 1977.
88 Marcello Pignatelli, 2003, comunicazione personale. Cfr. inoltre: Aa.vv. 1996.
tra l’altro raffrontato con le regole ed il setting dell’analisi freudiana classica (che allora era l’unica praticata in Italia).
Sottolineo inoltre che, a mio avviso, giocò un ruolo favorevole alla suddetta “libertà”, la scarsa presenza nel mondo junghiano di letteratura sulla tecnica analitica, assolutamente minore rispetto all’ambiente freudiano; Jung stesso, pur operando differenziazioni fondamentali di netta rottura (si pensi all’utilizzo del vis -a- vis e della partecipazione attiva), scrisse poco, se paragonato a Freud, relativamente alla tecnica della psicoterapia.89
Nella psicologia del processo d’individuazione, così Bernhard amava chiamare la psicologia analitica, egli poneva fortissima attenzione, per lo meno nelle pagine raccolte in Mitobiografia, alla tipologia ed alla funzioni junghiane, all’indefesso lavoro onirico, nonché all’elaborazione dell’ Ombra. A questo proposito, egli distinse quella che definì Pseudo-ombra, in cui l’Ombra come spiega Bianca Garufi, viene considerata come quel tratto individuale che rende unici, diversi, e che per questo è in contrasto con la cultura dominante, ma anche come un’Ombra proiettata dal collettivo sulla personalità nascente, che la assume come una sorta di “profezia autoavverantesi”. Vi sarebbero inoltre “ombre di famiglia, di civiltà, di razza”, quindi non individuali bensì appartenenti alla propria cultura d’origine, familiare, etnica, sociale, che esigono un riconoscimento:
“(…) gli aspetti d’Ombra collettivi non vanno repressi né vanno mascherati, ma considerati quali componenti collettive della propria esistenza e recitati come una parte con cui non ci si identifica.”90 Il concetto di Pseudo-Ombra fra l’altro è ricorrente nel saggio di Bernhard “Il complesso della Grande Madre. Problemi della psicologia analitica in Italia” del 1961, che se per certi aspetti appare
89 Cfr. Dieckmann, H., 1979.
90 Bernhard, E., 1969, pag.157.
datato e superato, per altri mantiene delle potenzialità attuali, quando si ritiene che compito della psicologia sia anche quello di depotenziare le Ombre che pesano sui popoli, ovvero quel fardello di proiezioni pregiudiziali e stereotipiche che graverebbero su ogni etnia.
Gli aspetti fondamentali che insieme al discorso entelechiale meritano di essere posti in evidenza alla fine di una comprensione e giustificazione della pratica psicoterapeutica, sono essenzialmente due: la psicologia intesa come “psicologia educatrice” e come “Seelsorge”.
Con “psicologia educatrice” si apre un implicita dichiarazione di attiva partecipazione, che si allontana definitivamente dall’invocato distacco freudiano dell’analista dinnanzi al paziente. In merito a ciò, quindi al problema del transfert, Bernhard scrisse alcune pagine che profilano e presentano il problema del lavoro psicologico rispetto alle nevrosi come responsabilità reciproca, a due, bilaterale. Se Bernhard da una parte riconosce la possibilità dell’analista di contrarre la nevrosi, nonché un aspetto nevrotico in ogni analista, dall’altro egli vede come, potenzialmente, una com-partecipazione empatica e sincera ed un coinvolgimento responsabile siano elementi indispensabili all’analisi. Egli indica come via (ideale, è bene ribadirlo) il rapporto fra maestro ed allievo in alcune scuole orientali; esso non è una relazione di plagio, oppure impari, in cui l’esperto, l’”iniziato”, ha il potere onnisciente di guida ed è esente da errori, come vorrebbe un’accezione arrogante occidentale, intrisa di ignoranza; tutt’altro la relazione fra maestro e allievo, così come indicata da alcune culture indo- orientali, è un patto di reciproca responsabilità, in cui il problema diviene comune e sono assenti ruoli di potere. E’ la relazione quindi a divenire “terapeutica”, in quanto attiva o ri-attiva il processo individuativo.
“Rivolgendosi interamente al lavoro col paziente la sua anima (dell’analista, n.d.r.) opera in esso. I sogni permettono di scorgere tale processo. Il maestro
dovrebbe avere sempre per l’allievo una schietta benevolenza e una comprensione fondata sulla ‘realtà’; né contro-transfert positivi né negativi. I primi conducono inflazione nell’allievo, i secondi possono gravemente ferirlo e danneggiarlo.Una comprensione amorevole e penetrante che, consapevole, lascia che le cose avvengano, è vero fattore di guarigione.”91
Come si è potuto notare nel corso di tale lavoro, tale linguaggio e tanta apparente semplicità non dovrebbero trarre in inganno: non sono, è mia opinione, vuoti teorici o semplificazioni misticheggianti, ma espressione di riflessioni importanti che coinvolgono la natura di concetti quali “psicoterapia” e “guarigione”. E altresì rivelano, ancora una volta, il retroterra culturale e spirituale di Bernhard, quel legame all’hassidismo diffuso dagli zaddiq, guide spirituali che similmente a certi maestri zen iniziavano l’allievo a prendersi responsabilmente cura di sé.
Lo stesso Bernhard non teme di affermare nel 1946:
“L’importanza capitale di una religiosità operante e del suo sviluppo conferisce alla psicologia junghiana il carattere di una ‘cura d’anime’ (…), si rivolge alla crisi spirituale religiosa del passaggio di civiltà in cui ci troviamo, ampliando la problematica e la risposta freudiana. Ne consegue un’attitudine essenzialmente diversa di fronte al problema della guarigione. Nella psicologia junghiana il sintomo non viene soltanto tolto dal centro, ma acquista un valore del tutto diverso. Esso è visto come lato positivo e non ‘dissolto’, ma ‘portato a compimento’. Poiché il processo d’individuazione comprende tutta la vita, anche il lavoro inerente alla presa di coscienza si estende su tutta la vita. Meta della terapia è insegnare a colui che cerca aiuto e consiglio come si lavora alla presa di
91 Ibidem, pag.123.
coscienza (…) fino a che egli, vivendo, indipendentemente, la propria vita, sappia tendere coscientemente alla maturazione della personalità.”92
In un suo ricordo scritto di Bernhard, Aldo Carotenuto annovera l’analista berlinese tra coloro che si amerebbero chiamare padri spirituali:
“(…) e come per la maggior parte di questi, ciò che di più vivo e autentico resta è proprio ciò che le parole non lasciano trapelare. E in ciò Bernhard seguiva l’ammaestramento di Platone(…). Per tradizione il verbo dei maestri è la parola orale, o meglio ancora l’eloquenza di ogni gesto, e la testimonianza di una ricerca interiore che, pur fatta di cadute e di errori, si fa apprezzare per la sua costanza.”93
In questa cura d’anime, in questa psicologia educatrice, forse dovuta anche al “ruolo” di formatore dei primi analisti junghiani italiani, e che tuttora resta discutibile e criticabile secondo alcuni allievi, rientra anche l’attenzione da parte di Bernhard per la vita del paziente:
“…l’esperienza pratica ci ha insegnato che proprio la ‘vita esterna’, che nella rigorosa analisi freudiana viene ridotta il più possibile per essere assorbita nel transfert sull’analista, che proprio questa vita esterna ci apporta gli aiuti essenziali per la risoluzione della nevrosi e diventa per così dire essa stessa medico e maestro. (…) Nel lavoro psicologico pratico le conoscenze così acquisite rappresentano un mutamento rivoluzionario della prassi introdotta da Freud e ampliata dai suoi allievi. L’inclusione della vita esterna, anzi il riconoscimento che essa ha lo stesso valore del materiale psichico prodotto durante il processo psicologico, esige che durante il ‘trattamento’ anche la vita esterna acquisti una importanza plasmatrice nello stesso tempo in cui vuole essere plasmata. La ben nota ‘astinenza’, imposta non solo al paziente ma cui è
92 Ibidem, pag.118.
93 Carotenuto, A., 1996.
impegnato anche l’analista, al quale solo in casi che mettono in pericolo la vita è permesso di occuparsi della vita esterna del paziente, così cade e diventa assurda. Con ciò sorge per il medico e il paziente una responsabilità nuova e reciproca, una nuova forma di rapporto, che pone esigenze di cui la tecnica freudiana non si sognava.”94
L’eterodossia e la libertà, lo studio curioso e l’apertura non pregiudiziale verso antiche discipline sono da inserirsi nello spirito di ricerca, eclettico di Bernhard. Scrive Romano Màdera:
“Non si tratta di involontarie e casuali trasgressioni del settino ortodosso, ma di ‘tentativi rivoluzionari’ che raccolgono responsabilmente le conseguenze di una radicata, e altra, esperienza e meditazione della vita psichica e spirituale. Forse anche per questo Bernhard è rimasto fino ad oggi una specie di ‘maestro segreto ’.”95
E’ mia intenzione, giunto a questo punto, far dialogare nuovamente le voci di chi ha lavorato con Bernhard, tentando di comporre un mosaico il più possibile completo, non necessariamente armonico, ma che metta in luce le diverse sfumature di colore. A tal proposito mi servirò di un collage, mi auguro sufficientemente oggettivo, composto sia di scritti che di conversazioni avute personalmente.
94 Bernhard, E., 1969.
95 Màdera, R., in Aa.vv, 1996.
3.2.1. Alcune testimonianze
Scrive Mario Trevi:
“Chi era l’ironico e antiascetico rabbi che citava a memoria Chuang-tzu e sarebbe morto leggendo Bultmann? La presunzione accademica allora dominante aveva un bello scuotere la testa e arricciare il naso: per essa si trattava solo del solito “ciarpame” irrazionalistico, del ribelle e risorgente rettile dell’individualismo e dell’intuizione che le sovrane tesi dello storicismo s’impegnavano di tempo in tempo a schiacciare sotto il peso giustiziere e inflessibile. L’interrogativo sul tranquillo e pensoso medico berlinese rimaneva vivo e si estendeva ad un numero sempre maggiore di individui o semplicemente inquieti o decisamente ribelli. Si trattava, si, di uno junghiano, ma senza pregiudizi o preclusioni di scuola, rispettoso della grande lezione freudiana seppur filtrata (…), rispettoso anche dell’utopismo marxiano (…). La sua cultura era più universale di quella di Jung: vi si trovavano punti di fuga e nodi complessi ignorati nella stratificata ma sostanzialmente naturalistica antropologia del maestro svizzero.” Trevi inoltre sottolinea due elementi “bernhardiani in Bernhard” sui quali si dovrebbe scrivere “un libro prima che la memoria di lui si dissolva nel tempo”: essi sono il modo d’intendere l’individuazione e la sua curvatura religiosa:
“In Jung l’individuazione conservava pur sempre un’impronta quasi esclusivamente conoscitiva: la “messa in luce” dei caratteri psichici celati nell’inconscio, l’estrazione dell’individualità dal magma del collettivo, il riconoscimento del Sé nascosto o ricacciato nell’ingannevole luminosità del canone culturale conscio. In Bernhard accanto a questo inevitabile elemento gnostico, vigeva una forte declinazione operativa: non c’era materia originaria, per quanto umile o ignobile, che non potesse costituirsi in forma dotata di senso,
in “figura” riscattante, in particella di un assoluto testimone di un disegno.(…) La stessa “analisi” era concepita più come “alveo” che come “denudamento”. In quell’alveo caldo, oscuro e uterino ognuno poteva più volte nascere e morire: nulla era del tutto dato in anticipo; dal multiplo e casuale spazio dell’esistenza poteva sempre giungere qualcosa di nuovo. Si trattava allora di inventare la geometria inusuale con cui quel “nuovo” poteva saldarsi al “già dato”, al già conosciuto. E, saldandovisi, costruire racconto, storia, mito, Sinn, senso.” Per quanto concerne l’aspetto religioso:
“ (…) Bernhard indicava la trascendenza come trascendimento, come andare oltre il dato ingannevole dell’esperienza quotidiana, ma rimanendo pur sempre ancorati alla terra, come sfondamento senza alcuna certezza dogmatica, infine come “trascendenza immanente”, condizione dell’uomo e non garanzia, disposizione e non fondamento, decentramento e non sicurezza, ricerca e non verità. Di fronte a questo umanismo le metafore gnostiche-inevitabilmente dualistiche- mostravano tutto il loro potenziale di sapienti espedienti pragmatistici: si risolvevano in giochi euristici, in esercizi di quell’intelligenza che non procede né per induzione né per deduzione, bensì per cautelosa abduzione.” 96
Una testimonianza importante è quella di Gianfranco Draghi, per il quale ho scelto un brano estratto da un suo inedito Ricordo di Ernst Bernhard :
“Era un uomo religioso nel senso antico, dava un senso un valore un legamento, una eticità di rapporto alle cose e in qualche modo pareva appartenere al mondo culturale mitteleuropeo e a quei fondamenti almeno per quanto riguarda certi gusti o certe preoccupazioni: era nei sogni e nei miti: ma il suo senso dell’ethos del nuovo padre e dell’ombra, la liberazione e la spregiudicatezza della liberazione erano del nuovo paradigma. L’indagine senza
96 Trevi, M. in Lagorio, S. 1990.
scrupoli di ogni possibilità umana, psicofisica, lo poneva oltre il vecchio paradigma scisso, il razionalismo divisorio (…). Bernhard era un conciliatore e un uomo profondamente dedito, buono: si è dato agli amici cercando in ogni modo di aiutarli, aveva un senso dei nessi concreti e misteriosi dell’esistere, sapeva mettersi lui stesso, per gli altri, in una consapevolezza diversa, in questo era un maestro hassidico. (…) Voleva insegnare la comprensione, l’attenzione, l’empatia , anzi la simpatia verso l’altro, il non fidarsi della nostra testa, ascoltare il nostro corpo, le nostre reazioni, il non ridurre un sogno o una vita a un concetto, ma alla individuazione personale, lasciandola sgorgare da sé…(…) Il suo rapporto coi sogni e con i suoi archetipi era azione nel senso di una incidenza produttivamente immaginata, intuita, sviluppata: la sua presenza attuale diventava in questo senso “magica” cioè esplosione di possibilità nuove, o di diverso significato, forniva elementi di interazione e di azione della realtà nuovi: in questo era proprio e davvero colui che serve e segue: il terapeuta.”97
Mi è caro trasporre ora una parte del ricordo che dà di Bernhard Vincenzo Loriga, psicoanalista junghiano, in un suo breve scritto:
“Di ciascuno di noi Bernhard coglieva i bisogni, anzi il bisogno, il bisogno fondamentale, e su questo basava la terapia: che quindi riusciva diversa da persona a persona e permetteva all’uno di vederlo come un sacerdote, all’altro come uomo di mondo. (…) Lassista o rigorista? Forse era tutt’e due le cose insieme. Ma a seconda del suo interlocutore questo o quel tratto venivano esaltati.(Così con gli anni si dettero del personaggio versioni contrastanti e, purtroppo, mal verificabili. Fiorì la leggenda.) Perché ho sempre provato un senso di insoddisfazione leggendo la Mitobiografia? Perché mi sembra che in essa una preoccupazione di ordine sacrale-relativo appunto alla salvezza- impedisca allo spirito di ricerca di planare liberamente e ne rallenti lo slancio.
97 Draghi, G., Ricordo di Ernst Bernhard, inedito.
C’è molta saggezza, molta esperienza di vita, molte osservazioni acute, ma lo spirito…non spira. Manca il soffio. Manca, si, quel soffio che faceva di Bernhard un terapeuta d’eccezione. E qui vengo al punto. Quella sapienza mondana, quella capacità di dire la parola giusta, quel sorriso illuminante, sempre opportuno, sempre adatto alle circostanze, non erano un portato tecnico, ma l’espressione di una sensibilità che d’amblée si metteva in rapporto con le cose, percependole dal di dentro, sfrondandole dell’inessenziale. Con Bernhard era difficile, se non impossibile, mentire.” Ed al termine del suo scritto, Loriga lascia in sospeso un quesito importante:
“Elaborava il negativo Bernhard? Sotto la specie dell’evento, di sicuro. Quanto ai fantasmi interni che assillavano il paziente, si comportava come l’angelo che, con un blando gesto della mano o del volto, mette in fuga i demoni più pericolosi e feroci. Ma sarebbero, poi, costoro ritornati?”98
Paolo Aite mi ha donato un affettuoso ricordo, pervaso, mi permetto di dire, da un sentimento di gratitudine:
“..Non si fermava all’apparenza, o a quello che gli altri avevano detto, ma apriva lo sguardo anche ad altre dimensioni dell’esistenza. Certo che leggeva i segni, i segni delle cose nuove, di quello che lo stupiva…Quello che ha lasciato una grossa impronta in me è l’apertura mentale dell’uomo, una costante meraviglia, una continua ricerca di senso, ovviamente anche spirituale. Dava fastidio questo? A me personalmente mai, pur essendo io di formazione diversa, di carattere diverso..A tanti altri ha disturbato. Era un uomo attento al fenomeno vitale da tanti punti di vista. Che poi lui credesse…non abbiamo mai parlato in fondo di religione in senso stretto: io facevo l’analisi con lui. Aveva un grandissimo interesse per l’immagine, aveva un talento nell’avvicinare il sogno, nel lavorare con il mondo onirico. E il fatto che io sia trent’anni che mi occupo di
98 Loriga, V. in Lagorio, S., 1990.
immagini, in particolare del gioco della sabbia..beh, sicuramente questo parte da lui !(…) Bernhard rimane un personaggio non inquadrabile, non si lascia racchiudere negli schemi..si può dire: era un ebreo hassidico, ma non era solo un ebreo hassidico; era un cristiano, ma non era solo un cristiano..uno junghiano? Ma non era solo uno junghiano..e via dicendo.”99
Marcello Pignatelli dà un quadro più problematico della sua esperienza con Ernst Bernhard:
“Il suo modo di fare non incontrava certo il favore della mia formazione medico-scientifica..Anche se per quanto riguarda la tecnica durante l’analisi essa era sostanzialmente conservata e corretta..A parte forse la sua modalità di rapporto anche esterna con il paziente, si pensi al clima della casa sul lago di Bracciano, dove Bernhard faceva pure il bagno insieme ai suoi pazienti ed allievi; cose abominevoli per la cultura dominante di allora..Il personaggio era trasgressivo per definizione, ma nel lavoro, serio..Mi lasciavano perplesso certe modalità legate al fascino personale, queste modalità di cooptazione abbastanza precisa, creando un grosso afflato, mi parlava a volte di Pitagora ed una scuola pitagorica…Egli è stato sicuramente una grossa personalità, ma non ho avuto, come altri nei suoi riguardi, un’enfasi così marcata.”100
Simile la testimonianza di Mariella Loriga Gambino:
“Il nostro rapporto procedette tra alti e bassi, l’idea di poter lavorare un giorno come analista mi attirava, ma volevo caparbiamente affermare le mie scelte, i miei bisogni. Forse anche per questo, non mi sentii mai pienamente accettata da quel gruppo di persone che chiamava Bernhard il “guru” e che si rivolgeva a lui per ogni minima difficoltà. Dopo poco tempo l’inizio dell’analisi, Bernhard dovette partire e mi propose di incontrare, se ne avessi avuto bisogno, sua mogli
99 Paolo Aite, 2003, comunicazione personale.
100 Marcello Pignatelli, 2003, comunicazione personale.
Dora, che nel frattempo aveva ultimato il suo training a Zurigo con Toni Wolff. (…) Fu un incontro fondamentale per la mia vita, (…) forse anche perché Dora Bernhard era lontana da certi atteggiamenti mistici che avevano invece disturbato il mio rapporto con Bernhard.”101
Silvia Rosselli, durante una nostra conversazione, sottolinea l’apertura e la curiosità di Ernst Bernhard, l’assiduo impegno, mai concluso, nel lavoro sui sogni propri e dei pazienti, il desiderio di conoscere orizzonti culturali e personaggi che richiamassero la sua attenzione, come “quella volta che venne a Roma per una delle sue tante conferenze Krishnamurti, e Bernhard fece in modo di incontrarlo; si conobbero ed ebbero incontri ripetuti. Ma come per altri settori, mi sono accorta con il tempo che Bernhard non era mai ‘seguace’ di nulla, non osservava pedissequamente alcunché, coglieva solo ciò che potesse aiutarlo, interessarlo, affascinarlo; il resto lo lasciava.”102
In un certo senso un “libero pensatore”, usando l’espressione fornitami da Paolo Aite.
101 Loriga Gambino, M., in Aa.vv., 1996.
102 Silvia Rosselli, 2004, comunicazione personale.
3.3 Pratiche eterodosse
Introduzione
Parlando di Ernst Bernhard non si possono omettere i suoi veraci interessi verso arcane discipline, cui egli dedicò studi e sperimentazioni. Profondo conoscitore dell’ I Ching, che consultava assiduamente, studioso dell’astrologia e dell’oroscopo quale “radiografia di freni e risorse del soggetto” secondo un’espressione di Luciana Marinangeli, entrò inizialmente in contatto con la chirologia di Julius Spier. Passione per dimensioni di un sapere “altro” ed antichissimo, semplice caratteristica eccentrica del personaggio, escamotage per giungere ad una visione sincronistica degli avvenimenti eludendo e superando il principio di causalità, metodo per affrontare ed esplicare l’ impasse nella relazione, vera e propria sperimentazione frutto di una ricerca senza pregiudizi…Sono molte e diverse le opinioni riguardanti tali aspetti dello studioso Bernhard, e seguono probabilmente l’andamento dei variegati e numerosi rapporti che egli mantenne in vita.
Queste pratiche sono da considerarsi di rilievo per qualsiasi studio su Bernhard, per essenzialmente due aspetti di fondo. In primo luogo, per un resoconto storico-biografico serio, che non può evitare di prendere in considerazione simili tratti, non solo per le numerose citazioni che trovano spazio nella Mitobiografia, ma anche per le implicazioni nella relazione psicoterapeutica. Secondariamente, perché credo che parte della rimozione culturale che pesa su Ernst Bernhard sia dovuta alla familiarità con queste discipline, valutate come irrazionalistiche, esoteriche, infondate scientificamente (per lo meno per i canoni occidentali).
3.3.1. I Ching, astrologia, chirologia
L’ I Ching, il Libro dei Mutamenti, l’antichissimo testo oracolare e sapenziale, uno dei più stimati ed importanti tesori della cultura cinese, paragonabile per importanza rappresentativa alla Bibbia, al Corano e ai Veda, fece il suo ingresso in Occidente grazie al grande sinologo Richard Wilhelm, il primo a fornirne una traduzione seria e approfondita, anche grazie alla sua lunga permanenza in Cina. C.G.Jung fece la prefazione a questo capolavoro orientale, pregno di una saggezza lontanissima rispetto al pensiero occidentale, basato in massima parte sulla consequenzialità e sulla causalità. L’I Ching, ora diffusissimo e assai studiato, prima della traduzione di Wilhelm fu però per decenni trascurato a causa di traduzioni improprie e parziali.
La prima edizione italiana in assoluto fu voluta da Bernhard, per la collana dell’Astrolabio.
Egli lo teneva sempre al suo fianco, nella traduzione tedesca, sul tavolo rettangolare che lo separava dai pazienti, per una consultazione frequentissima, per alcuni davvero imbarazzante: esso conteneva secondo Bernhard, tutto l’uomo, l’Adam Kadmon, e l’espressione delle innumerevoli situazioni che sono date di vivere, ricordando all’uomo che egli è perennemente in fieri , in mutamento, in un continuo divenire. Divenire che è il fluire, libero, del Tao.
Il rapporto interattivo con l’I Ching, che segue secondo Jung quello che egli chiamò il principio di sincronicità, per indicare quella correlazione tra fatti interiori ed esteriori che sfuggono ad una spiegazione causale, offriva a Bernhard nessuna direttiva precostituita, nessun determinismo, bensì “un terzo occhio sulla realtà”103, che mettesse in luce un punto di vista “altro”, che raccogliesse il senso del mutamento, degli accadimenti. Conoscere l’I Ching e le sue profondità è
103 Gianfranco Draghi, comunicazione personale.
assai complesso, secondo i sinologi; Bernhard lo conosceva pressoché a memoria e lo frequentava come un amico, un interlocutore personificato: l’I Ching dice di sé di essere un libro parlante.
“ I segni parlano un linguaggio simbolico, che va prima decifrato in relazione alla situazione data; comprenderlo è un’arte in cui bisogna esercitarsi e che si impara veramente solo dalla propria esperienza e dal frequente uso dell’I Ching”104 Esso è in ultima analisi un testo contemplativo; non risponde obbligando e non da soluzioni precise, indica semmai un atteggiamento psicologico diverso, slegato dal rapporto causa-effetto, allarga l’orizzonte, propone taoisticamente l’abbandono attivo alla natura delle cose e al loro naturale corso; spinge alla riflessione meditativa, slegata dall’ansia di giudizio e di definizione. Il suo merito sta nel fatto di produrre un cambiamento di prospettiva, che ovviamente inizia da chi lo consulta, dall’atteggiamento con il quale questi pone domande al testo e dall’atteggiamento che, di rimando, viene indicato dal libro. L’I Ching mostra le connessioni di una condizione possibile, da immagine alle possibilità di evoluzione delle situazioni, lo si interroga, secondo Bernhard, “per il bisogno di interrogare un’istanza sopra-personale che sa più di noi, e alla quale ci rivolgiamo in una situazione cui non siamo capaci di far fronte con la sola facoltà di penetrazione della nostra persona.”105 Difatti ciò che muove Bernhard per sua stessa ammissione è conoscere, vivendo nel Tao, ciò che Dio, il Senso, la Via volessero per lui.
Bernhard era in grado di consultare l’I Ching secondo la tecnica rituale più antica, che può durare anche oltre un giorno, sia secondo la tecnica più veloce e recente – attualmente la più utilizzata – che avviene grazie al lancio delle tre monete. Ma egli utilizzava anche l’apertura casuale del libro, che ricorda la prassi
104 Bernhard, E. 1969, pag.93.
105 Bernhard, E., 1969, pag.163.
di certi mistici cristiani con la Sacra Bibbia, e puntando il dito indicava un responso. Da qui scaturiva la riflessione, la messa in discussione, l’abbandono fiducioso.
L’uso del Libro dei Mutamenti non fu certo congeniale a molti; esso poteva creare notevoli resistenze, sensazioni di imbarazzato disagio durante la seduta. Poteva apparire, e per tanti lo fu, un atto fuori luogo, “magico”, destabilizzante l’atmosfera delicatamente intima che inevitabilmente un rapporto di analisi richiama. Per altri, come Claudio Modigliani la consuetudine con pratiche eterodosse:
“ era fondamentalmente una ricerca di senso, di tanta attenzione nei secoli, dei millenni passati su questi argomenti. E col tempo si è scoperto che non tutto questo senso era determinato da primitività di intelletto ma anche da esperienze che gli antichi avevano fatto a modo loro. Penso che fosse anche un modo per ricollegarsi a una antica saggezza. Certo, Bernhard aveva una particolare ammirazione per le concezioni taoiste, per esempio, che sono peraltro, molto vicine al senso profondo della psicologia dinamica.”106
Anche lo studio dell’astrologia accompagnò per decenni Bernhard; come molti altri analisti, a partire da Jung, egli ne studiò la simbologia ed i mitologemi, ovvero la considerazione dello Zodiaco come proiezione di contenuti archetipici interiori, appartenenti all’umanità. In questa prospettiva, l’astrologia come i miti, l’arte, le leggende, comunicherebbe ed attiverebbe dei contenuti collettivi profondi: non vi sarebbe alcun rapporto di causa-effetto tra astri e storia dell’uomo, bensì sarebbero i simboli ad agire sulla base del principio di sincronicità e analogia: segni zodiacali e pianeti si porrebbero quindi come entità simboliche dello psichismo umano che si attiverebbero in virtù del linguaggio
106 Modigliani, C., in Sorge G., 2001.
astrologico. Scrisse su quest’onda l’epistemologo Gaston Bachelard che “lo zodiaco è il test di Rohrschach dell’umanità bambina”.
Ora, Bernhard era comunque avvezzo a studiare l’oroscopo, che faceva personalmente, e a tracciare un profilo del proprio interlocutore, paziente o allievo, sulla base del tema natale. Questo può indurre a credere che egli volesse forse sperimentare, su base statistica, delle correlazioni. In fondo anche Jung, durante la stesura di alcuni suoi studi sulla sincronicità, si rivolse a Bernhard per richiedergli del materiale sulle sinastrie, gli oroscopi di coppia.
“Al primo incontro-racconta Marcello Pignatelli – mi chiese l’ora e la data di nascita…rimasi totalmente perplesso..e mi pregò di recarmi all’anagrafe per conoscere l’ora esatta. La seduta più tardi mi compilò un oroscopo personale, sulla base del tema natale, che fra l’altro io ritenni molto vicino all’immagine che mi ero fatto di me.”107
Anche Paolo Aite mi ha fatto partecipe del suo primo incontro con Bernhard, inusuale e sorprendente:
“E’ vero che la prima volta che lo incontrai mi chiese giorno di nascita e mi domandò di fargli vedere il palmo della mano…pensai: ma da che matto sono capitato? ”108
Si rimane a volte confusi affrontando l’influenza che l’astrologia ha avuto nel credo bernhardiano: si ha come l’impressione che egli avvertisse l’importanza e la presenza di una vita sopra individuale agente nel cosmo; pare, a detta degli allievi, che prendesse molto seriamente i suoi studi sull’oroscopo, in termini di reale effetto. Basti pensare al ricordo di Loriga Gambino che narra come Bernhard le avesse proposto, in base ad una configurazione astrologica, di cambiare addirittura la data delle proprie nozze. Altre volte invece appare come
107 Marcello Pignatelli, comunicazione personale.
108 Paolo Aite, comunicazione personale.
l’interesse fosse unicamente legato ad una visione sincronistico-mitologica, atteggiamento che mi pare prevalga. E’ mia opinione che Bernhard avesse a cuore la necessità che l’individuo si sentisse portatore di una peculiarità nella vita, di un compito, a volte coincidente con delle difficoltà oggettive, ma pur sempre un compito. Questo probabilmente anche il senso dell’oroscopo natale (cosi come la chirologia per l’entelechia individuale e karmica): esso, attivando un archetipo di Senso, riscattava l’individuo dal magma indistinto del collettivo, restituendogli un precipuo significato del suo proprio irripetibile esistere.
Va rammentato che l’astrologia, la chirologia e l’I Ching non assunsero mai completamente lo status di regola riguardo al rapporto con il paziente, come testimonia anche Enzo Lezzi:
“Era un intervento che lui poteva fare casualmente quando capitava, non era una regola…-credo che non abbia mai letto la mia mano (…)-. Io credo che anche coi pazienti, quando era necessario avere questo tipo di rapporto e di informazione, lo metteva in atto, ma non era una strada..abituale, per quanto ricordi, questa della lettura della mano. Certamente la parte più importante per lui è stata sempre la elaborazione dei sogni; oltre allo studio della singola personalità, sempre attraverso quello che è stato di volta in volta il contributo dato dal mondo interno, nella storia del singolo individuo. Certamente lui aveva una grande capacità di comprensione, di attenzione, verso quelli che erano i problemi individuali, oltre che quelli sociali.”109
E così Francesco Montanari:
“ Bernhard era una persona di grandissime qualità intuitive, e secondo me ne faceva anche un uso concreto nella relazione umana, e anche nell’interlocuzione. Con me, l’I Ching e chirologia, ne ha fatto pochissimo uso, direi quasi, usando un po’ di ironia: proprio perché avvertiva delle resistenze (…) che lui rispettava.
109 Lezzi E., in Sorge G., 2001.
A parte poi che così, quasi giocosamente, quando mi nacque il primo figlio, lui si divertì moltissimo a leggere la mano del neonato e a dettare a mia moglie che invece era più disponibile (…), ma con me sentiva evidentemente un annoiarmi, un qualche cosa, per cui non mi ha mai guardato la mano, non m’ha mai gettato le monete per fare un I Ching…”110
Capitolo quarto
L’influenza di Ernst Bernhard nel panorama culturale italiano
Introduzione
“Parlare di Ernst Bernhard significa dunque parlare di un uomo che ha fatto cultura nel nostro paese, una cultura di sensibilità e intelligenza, qualità da lui praticate e distribuite a piene mani fin dall’inizio della sua attività, cioè fin da quando giunse a Roma nel 1936”111 scrive Bianca Garufi, anch’ella figura di primo piano del mondo analitico e poetico italiano. Confutare quest’affermazione non è possibile; occorre invece prendere atto della silenziosa e nascosta influenza culturale che Bernhard ha alimentato e nutrito. Il suo ruolo è stato fondamentale ed insostituibile nella storia della psicologia del profondo italiana e nella diffusione e traduzione di opere notevoli, pur rimanendo ben poca traccia di lui, all’infuori di quanti lo conobbero, rimanendone inevitabilmente e diversamente toccati.
Uno dei nodi cruciali di questo mio lavoro riguarda proprio, in particolar modo, il silenzio in cui Bernhard è stato avvolto, in una forma, è mia opinione, di indebita rimozione culturale.
L’importanza che egli ha rivestito, si pensi unicamente al fatto di aver introdotto il pensiero junghiano in Italia, è indiscutibile. Ma troppo spesso ho constatato nelle mie ricerche quanto egli passi inosservato, fatto salvo forse per il mondo artistico, dove è conosciuto, con la sua fama leggendaria, per essere stato analista di grandi nomi della cultura italiana. Mi sono spesso interrogato, e
seguito a farlo, sul perché di tale situazione, anche consultandomi e confrontandomi con gli allievi di Bernhard.
Eppure nella Roma di fine anni Quaranta sino alla metà degli anni Sessanta, il labirintico appartamento dei coniugi Bernhard divenne un piccolo fulcro per una ricca ed eterogenea umanità.
Per diverse ragioni Bernhard è rimasto un’eminenza grigia, un personaggio in penombra. La sua stessa personalità credo abbia spinto in questa direzione: amante della compagnia, per certi versi interessato anche alla forma ed alla presentazione sociale, egli fu però sempre lontanissimo dal presenzialismo pubblico. Rifiutò ciclicamente di mettere a pubblicazione i suoi scritti, di sfruttare certe altisonanti conoscenze per desiderio di fama: Bernhard si votò al proprio mondo interiore ed alla “devozione” verso il paziente.
Egli cercò, anche nei primi anni dell’ A.i.p.a. ( “e l’A.i.p.a agli inizi era Bernhard” dice Silvia Rosselli) di creare atmosfere conviviali, sentiva il bisogno di rapporti umani caldi ed informali, forse per uscire da una certa rigidità verso se stesso, teutonica, mitteleuropea, come mi ha fatto notare Gianfranco Draghi.
In effetti rispetto alla sua cultura familiare patriarcale Bernhard affermò di aver avuto un sentimento d’insofferenza, un’amputata possibilità di espressione. E nella Mitobiografia si ritrova un commento ad un sogno dettato il mese della sua scomparsa: “Che impressione benefica mi hanno fatto i napoletani, che mangiano cipolle, sono disordinati e parlano con le mani, come gli Ebrei! Questo significa appunto che in Italia ho ritrovato la radice ebraica mediterranea. In Germania mi era stato inculcato di non parlare con le mani, di non mangiare cipolle, di essere ordinato, il controllo su me stesso, e via dicendo. Nel contatto coi napoletani la mia anima mediterranea, rimossa dalla civiltà patriarcale, ha ripreso a vivere.”112
Gli stessi tentativi di incontro armonioso presso la casa sul Lago di Bracciano testimoniano la volontà di circondarsi d’un’atmosfera amichevole, se è vero, nonostante il nucleo di intellettuali freudiani che lo accolse, quanto egli scrisse a Jung nel 1947: “Da solo, tagliato fuori da ogni consuetudine con colleghi di vedute affini, mi sono inserito, come ho potuto, in un ambiente ostile sotto ogni aspetto, sempre “analizzando”, e non posso lamentarmene.”113
Prova di questa intima necessità di sicurezza e affetto sia anche il rammarico forte, provato quando nell’A.i.p.a iniziarono i primi dissidi, ad incrinare un ideale di conviviale simposio.
Inoltre la familiarità con pratiche antiche, facilmente fraintendibili, hanno a mio avviso oscurato, oltre che la figura di Bernhard, anche le intuizioni che meriterebbero di essere approfondite. Soprattutto nel mondo della psicologia, mi pare, Bernhard resta ancora in parte marchiato d’eresia. La religiosità che ha pervaso la sua vita in ogni aspetto, rovesciando le posizioni di Jung, quest’ultimo legato sì a tentativi di netta emancipazione dal positivismo, ma al contempo cauteloso e a volte contraddittorio nei suoi sfuocati sbocchi metafisici, ha contribuito a lasciare isolato il pensiero di Bernhard.
Leggendo un passo di Gianfranco Tedeschi, forse uno fra gli allievi che ha raccolto maggiormente l’eredità bernhardiana, mi è parso di sentire una sottile ed implicita apologia del proprio “maestro”, quando scrive:
“…E’ qui che vanno collocati numerosi analisti junghiani che reprimono la loro vocazione religiosa. Altri colleghi non se la sentono di sopportare l’accusa di misticismo rivolta a Jung per cui ricorrono a delle filosofie razionalistiche e sposano nei fatti l’avventura di Freud il quale li tranquillizza definendo la religiosità un’illusione, un quasi delirio, un persistere dell’onnipotenza infantile,
113 Bernhard, E., in Sorge G., 2001.
delle immagini genitoriali. (…) Non dobbiamo vergognarci di riconoscere che nell’animo umano esiste una qualità religiosa.”114
Ho già descritto (cfr. cap. 1) i rapporti di Bernhard con Bobi Bazlen, Mario Ubaldini e Adriano Olivetti, e la straordinaria proficua produttività che scaturì dall’incontro di queste personalità d’eccezione, così come la nascita di un’associazione quale l’A.i.p.a., da cui nascerà anche il C.i.p.a (Centro italiano di psicologia analitica), con la considerevole importanza che intellettualmente esse hanno avuto in Italia ( si pensi anche al gruppo di allievi di Bernhard che fondò la Rivista di psicologia analitica); la prossima parte di questo ultimo capitolo offrirà quindi una breve e diversa panoramica di intellettuali e artisti che riconobbero in Bernhard uno psicoterapeuta lontano dagli schemi.
114 Tedeschi, G., 2000.
4.1. Vittorio De Seta, Federico Fellini ed una Maria “di troppo”
Vittorio De Seta, importante nome del cinema italiano, era già da tempo legato alla consuetudine dei “colloqui psicologici” con Ernst Bernhard quando decise di consegnare il numero telefonico dell’analista all’amico e collega Federico Fellini.
I due registi si incontrarono in un momento difficile per Fellini, dovuto ad un impasse creativo e ad alcune particolari esperienze di tipo extrasensoriale che riteneva di aver vissuto. Lo stesso Fellini ha raccontato ad Aldo Carotenuto, che ha riportato la conversazione mantenendone l’alone fiabesco e misterioso caro all’artista romagnolo, di come avvenne l’incontro con Bernhard.
Sollecitato da De Seta a contattare il medico berlinese, Fellini lasciò il numero, annotato su un biglietto, nella tasca di una giacca, rimandando la telefonata. Ma un giorno, ritrovatolo, decise di comporre il numero: egli era però convinto che fosse il recapito di qualche donna frequentata tempi addietro, e non avendone scritto il nome, decise di esordire con un : “Pronto, è Maria?”. Rispose l’accento tedesco di una voce maschile, che dichiarò: “No, sono il dottor Bernhard”. Dopo un rapido scambio di battute i due si diedero un appuntamento per conoscersi; è il 1960.
Un inizio di rapporto, forse un po’ romanzato, ma che ben si addice a questi due poco ordinari personaggi.
Il rapporto non è analitico in senso stretto, ma molto libero, nello stile bernhardiano, e consta di colloqui di tipo psicologico, lavoro sui sogni, conversazioni; talora i due proseguono le “sedute” nella pizzeria sotto casa di Bernhard. Egli diviene in breve tempo un punto di riferimento per il grande regista, che legge voracemente Jung, apprende la consultazione dell’I Ching, ed inizia soprattutto ad annotare quotidianamente i propri sogni, dando vita al
cosiddetto libro dei sogni (composto di quattro volumi scritti a mano), di cui sono stati pubblicati solo alcuni stralci e che giace in una cassaforte, non ancora consultabile per motivi notarili, presso la Fondazione Fellini. L’artista inoltre spesso dipingeva le proprie immagini oniriche, a volte illustrandole a mo’ di fumetto.
Fellini è assai reticente nel parlare di Bernhard anche con gli amici, mantiene piuttosto segreti i suoi incontri con lui, per proteggere un legame che sente importante ed intimo: “quando è l’ora di andare in via Gregoriana sparisce e basta”. 115 Bernhard aiuta Fellini non solo nell’indagare il mondo onirico, che diverrà di assoluta importanza per la sua successiva attività creativa, ma anche per placare certi stati d’ansia dovuti alle esperienze “extrasensoriali” del regista, e le fantasie che a volte eccedendo, lo spaventano, riconducendo le frontiere delle percezioni al loro aspetto psicologico; proprio in questi anni, fra l’altro, si collocano le esperienze felliniane con una “spiritista” romana ed il suo esperimento con l’Lsd.
Il bagaglio degli incontri con Bernhard si fa prezioso per i film di Fellini, e ciò è facilmente intuibile in 8 e ½ e Giulietta degli spiriti oltre che nel successivo Satyricon ; ma in generale viene inaugurata una nuova stagione del cinema felliniano, in cui l’ inconscio fa la sua entrata in scena nel mondo di celluloide. Non a caso Fellini, in ripetute interviste, si dichiarò fortunato nell’aver incontrato l’opera junghiana, che lo stimolò nella vita e nell’arte.116
115 Kezich, T., 1987.
116 Fellini F., in Grazzini, G., 1983: “La lettura di qualche libro di Jung, la scoperta della sua visione della vita, ha avuto per me un carattere di gioiosa rivelazione, una entusiasmante, inattesa, straordinaria conferma di qualcosa che mi sembrava di avere in piccola parte immaginato. Devo questa provvidenziale, stimolante, affascinante incontro a una psicoterapeuta tedesco, il professor Bernhard.”
Lo stesso vale per Vittorio De Seta e per il suo film Un uomo a metà apparso sugli schermi nel 1966, un anno dopo la scomparsa di Bernhard; la pellicola si apre con una frase, che anticipa sintetizzandole le vicende narrate:
“Non nascondere le tue piaghe agli occhi tuoi e degli altri poiché verranno a cancrena e sarà la morte, esponile piuttosto alla luce del sole e sarà la salute”. Subito dopo le prime inquadrature, fatto inusuale per il cinema di quegli anni, appare una dedica: ad Ernst Bernhard.
Il film di De Seta, narrando la storia del giovane Michele, ripercorre e ripropone alcuni temi cari a Bernhard e a Jung, concentrandosi sul percorso evolutivo e trasformativo del protagonista. E si conclude con una citazione di Jung: “Ciò che prima dava origine a feroci conflitti e a paurose tempeste affettive, appare ora come una tempesta nella valle, vista dalla cima di un’altra montagna. Non per questo la tempesta è meno reale, ma si è sopra, non dentro di essa”, frase che allude al superamento della prova, ma che cozza con l’immagine del protagonista che nel finale è ancora avvolto nelle sue tenebre interiori, espressione probabilmente del lutto del regista per Bernhard.
Nello stesso periodo anche Fellini lavora ad un progetto mai portato a termine, Il viaggio di G. Mastorna, lavoro che muove dalla perdita di Bernhard, fatto che aprirà un periodo emotivamente duro, in concomitanza alle fredde reazioni nei confronti delle ultime produzioni cinematografiche. Ne Il viaggio di
G. Mastorna, copione illustrato, scritto nell’estate del 1965, si trova una sorta di tentativo di dare voce artistica ad una frase di Bernhard degli ultimi periodi di vita, cara a Fellini: “patire la morte in piena coscienza”. Il progetto non vedrà mai la luce, per le alterne vicende di Fellini e produttori: solo anni dopo, e a seguito di molte insistenze, il fumettista Milo Manara convincerà Federico a trasporre il lavoro in forma di fumetto, così come del resto era nato.
Concludendo, le riservate ed intime parole di Fellini su Bernhard:
“Per quanto mi riguarda, anche se il mio rapporto con lui ha dato luogo ad una specie di fecondazione che è ancora attiva, la sua morte è stata comunque un’interruzione, perché era il maestro, quello che mi aspettava a certi traguardi, a certe tappe. Ora il suo ricordo mi accompagna. Ma comunque è sempre una mancanza. Sì, non posso che dire questo, è una mancanza”117
Forse anche per far fronte a quest’assenza, Fellini seguiterà a mantenere e a creare nuovi rapporti, sia personali che professionali, con gli allievi di Bernhard, come Trevi e Draghi, e visitando la casa di Jung a Bollingen, luogo privato cui riuscirà ad accedere per la sua notorietà, sarà accompagnato da Pignatelli e Carotenuto.
117 Fellini, F., in Carotenuto, A., 1977.
4.2. I letterati fiorentini
“Tre ‘trasformazioni’ nel calore vivo di via Gregoriana: intenti volta a volta maestro e discepolo a far sì che ogni seme diventi l’albero che porta in sé, che ogni albero dia tutti i frutti che può dare.”118
Così scrive Margherita Pieracci Harvell, descrivendo semplicemente ma egregiamente l’atto maieutico di Bernhard con tre amici della Firenze di fine anni Cinquanta: Cristina Campo (alias Vittoria Guerrini), Gabriella Bemporad e Gianfranco Draghi.
La grandezza dell’opera di Cristina Campo si è rivelata ad un pubblico più vasto solo da pochi anni, da quando cioè Adelphi ne ha ripubblicato gli scritti. Scrittrice e curatrice editoriale, si trasferì da Firenze a Roma nel 1955, seguita poco dopo dall’amica traduttrice Gabriella Bemporad (cui si devono i maggiori saggi in Italia su Hugo von Hoffmannstahl e moltissime traduzioni), la quale dopo una visita durata dieci giorni finì con lo stabilirsi a Roma per dieci anni. Successivamente sarebbero state raggiunte da Gianfranco Draghi, poeta e filosofo, che con la Campo, sua profondissima amica, aveva creato un’importante spazio per giovani scrittori fiorentini con la Posta letteraria del Corriere dell’Adda.
Dietro le quinte, nemmeno a volermi ripetere, vi fu l’instancabile Bobi Bazlen, che conobbe Gabriella Bemporad a Firenze al tempo in cui Eugenio Montale, amico di Bazlen, lavorava preso la casa editrice del padre di Gabriella. Quest’ultima presentò Bazlen alla Campo, che sentì così per la prima volta parlare di Ernst Bernhard. Ed ella ne fece voce a Draghi, che aveva già udito raccontare del medico berlinese:
118 Pieracci Harvell, M., 2003.
“Prima di conoscere Ernst Bernhard, ebbi tre importanti riferimenti su di lui. Il primo fu quello di Clotilde Marghieri, grande nome della cultura napoletana, che me ne parlò durante la mia convalescenza per un incidente stradale avuto a Roma con Cristina Campo. Durante tale convalescenza lessi per la prima volta alcune opere di Jung. Il secondo fu mio fratello, che dopo un’analisi con il nostro amico e professore di liceo Cesare Musatti, fece un lavoro psicologico a Milano con Fabio Minozzi, allievo di Bernhard… Il terzo e più importante fu quello di Cristina Campo..fu lei a confermarmi i primi appuntamenti, mentre ero ancora in via di guarigione.. Cristina non fece una vera e propria analisi con Bernhard, ebbe degli incontri frequenti ma irregolari, liberi, lavorando sui sogni spesso..Era molto appassionata da un aspetto che riteneva magico. E Gabriella Bemporad mi raccontava con ammirazione e devozione, per così dire, di quest’uomo, elemento fondamentale per la sua vita..(…) Personalmente Bernhard mi ha aiutato ad approfondire le linee generali della mia esistenza; è stato una conferma di ciò che volevo esprimere nella vita..Potrei impiegare giorni per parlare di lui. ”119
La Campo frequentò Bernhard a lungo nel periodo in cui visse a Roma, rimanendone molto influenzata secondo Margherita Pieracci Harvell, che nota la singolare somiglianza fra i due nel rappresentare l’immagine di destino, intuibile anche nella prosa della Campo. Più tardi cercherà di evolversi da una certa influenza, e uscirà “dall’analisi più raccolta e segreta, all’aspetto più castigata”120, facendo però riconfluire forza, intensità e vividezza nei saggi e nelle ultime poesie.
Gabriella Bemporad, che raccolse da Bernhard il fervore per il simbolismo, riscoprì l’identità ebraica, in particolare l’hassidismo, “e come Bernhard si
119 Gianfranco Draghi, 2004, comunicazione personale.
120 Pieracci Harvell, M., 2003.
identifica con Ismaele e gli Arabi del deserto, Gabriella si copre di collane arabe e nella sua casina (…) fa presepi di beduini.”121
Infine Gianfranco Draghi che a lungo lavorò con Bernhard, darà successivamente ancora maggiore energia alla sua arte poliedrica, tuttora in piena produzione, divenendo analista e per un certo periodo presidente dell’A.i.p.a, dedicandosi alla pittura, alla scultura, alla prosa ed al teatro, lavorando con gruppi unendo la Gestalt di Perls con lo psicodramma e la psicologia junghiana- bernhardiana, in una pluriennale esperienza piuttosto in anticipo sui tempi italiani, come si evince a mio parere dal Piccolo manuale di drammatizzazione dei sogni (Draghi, 1996).
121 Ibidem.
4.3 Giorgio Manganelli
Narratore, scrittore visionario, giornalista, saggista e traduttore (specialmente di E.A.Poe, su suggerimento di Italo Calvino) quella del milanese Giorgio Manganelli (1922-1990), romano d’adozione, fu una vita immersa nella letteratura ed egli è attualmente considerato un punto di riferimento, ancora in parte da ri-scoprire, della letteratura italiana.
La sua vastissima ed eterogenea produzione, dai racconti ai resoconti di viaggio in Cina, India e Malesia, dalla critica letteraria al giornalismo, iniziò con la pubblicazione di Hilarotragoedia nel 1964, a poco più di quarant’anni, per Feltrinelli, cui seguirà anche un’edizione per Adelphi. Il materiale di quest’opera ebbe origine psicologica, risalente agli anni milanesi 1947/49, durante i quali con e come Alda Merini, Manganelli conobbe la “tragedia” della sofferenza psichica. Nato da lunghissima gestazione, il libro era in origine un quaderno di appunti scritto su volere di Ernst Bernhard. I due si incontrarono per la prima volta nel 1957, e nel 1959 Manganelli intraprese l’analisi, dalle sedute piuttosto frequenti, sino alla scomparsa di Bernhard.
“Avere un’unica autobiografia (…). La prima cosa che ha provocato in me l’impatto con Bernhard è stato proprio il rompere quell’idea. L’idea dell’unicità dell’io e quindi una decomposizione dell’immagine della mia personalità, di quello che io ero. Questa è stata la prima cosa che ho capito e che non mi ha più abbandonato. Questa scoperta l’ho fatta mia.”122
Manganelli tenne sempre un resoconto degli incontri in via Gregoriana, il suo interesse per la psicologia del profondo fu costante per tutta la vita; oltre a proseguire la psicoterapia con allievi di Bernhard, svariati furono i suoi scritti
122 Cit. in Lagorio S., 1990.
sull’analisi, raccolti nel volume Il vescovo e il ciarlatano (a cura di E. Trevi, Quiritta 2002.)
“Sapeva benissimo che, dal sottosuolo, provengono i maggiori pericoli per chi scrive. Era troppo intelligente per perdere il proprio controllo. Così, in parte senza volerlo, compì una doppia trasposizione. In primo luogo trasportò le figure dell’inconscio nella parte intellettuale della mente; così che tutti i brividi, le folgorazioni, le fosforescenze, i trasalimenti, le voci, i sussurri, le metamorfosi dell’inconscio vennero rinchiusi nella sua mente bene organizzata (…). In secondo luogo, come Poe, egli trattò l’inconscio con gli strumenti della retorica tardoantica, rinascimentale e barocca (…) Se questa letteratura conosceva un rischio, era insieme quello dell’informe e dell’eccesso trionfale di forma: rischio nato dallo strano abbraccio tra inconscio e retorica.” (P. Citati, Giorgio malinconico tapiro, “La Repubblica”, 18 luglio 1990).
Salvatosi dalla disperazione grazie all’arte ed alla psicoterapia, ma accompagnato sempre dall’angoscia esistenziale. La sua opera prima del resto è una sorta di autobiografia, un viaggio agli inferi per la stessa “natura discenditiva” dell’uomo e per “l’eredità sciamanica” della letteratura, che ha a che fare con gli spiriti, con l’Ade:
“Dall’infima cima sporgiti, abbandònati al tuo precipizio. Sii fedele alla tua discesa, homo. Amico”
Allegato
Riporto qui letteralmente alcuni sogni cui si è fatto riferimento, tratti da Mitobiografia (E. Bernhard. Adelphi: 1969.)
Sogno di Tobia (pag. 3)
(30-31 dicembre). Mi vien detto in sogno che la mia vita è benedetta come quella di Tobia e che sentirò consapevole la guida di Dio.
Sogno di Cristo-Pilato (pag. 4)
(1-2 febbraio 1933). In una grotta dentro la roccia, sottoterra, Cristo viene martoriato su un tavolo di pietra.(Accanto ha luogo un sezionamento quale luogo parallelo). Gli vengono spezzate le gambe (femore inferiore). Io sto a un capo del tavolo come uno che osserva, e mi chiedo come sia possibile sopportare tali tormenti. Guardo il suo viso e con sollievo constato che è svenuto. Dopo qualche tempo il martirio è cessato. Gesù si alza a sedere sul tavolo e gli portano qualcosa da mangiare, maccheroni crudi in una scodella, che egli inghiotte con l’avidità di un affamato. Tale volontà di vita mi appare sorprendente: così non si mangia quando si è pronti a morire. E infatti egli si riprende sempre più. Ora la moltitudine di Ebrei che ha assistito al martirio con una crescente ostilità verso Pilato, lo incita a dare a Gesù il bacio fraterno. Pilato accetta e si avvicina a Gesù. In quel momento la scena muta: i due stanno uno accanto all’altro davanti alla parete rocciosa della caverna, illuminati da una luce soprannaturale, in pacata compiuta corrispondenza, e s’assomigliano come un uovo all’altro, indistinguibili.
Sogno del Pholodendron (pag. 5/6)
(21-22 giugno 1934). Vengo esaminato da un professore. Egli mi interroga sul Philodendron. Questo mi fa piacere e mi rallegra; poiché sul Philodendron, che coltivo da anni nella mia stanza, so la verità. Dico dunque sicuro: il Philodendron ha il difetto che deve radicare su altri tronchi, questo è segno di mancanza d’indipendenza; invece ha la qualità di produrre foglie di forme così diverse, e questo è segno della sua facoltà d’adattamento. Con mia grandissima sorpresa il professore dice che la risposta è sbagliata, è giusto proprio il contrario. Così non ho superato l’esame e ho dato ai nazisti una buona ragione per perseguitarmi. Ma egli mi aiutera lo stesso, in grazia della mia lealtà, e mi apre una porta per cui sfuggo ai nazisti e raggiungo la libertà.
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